Bollicine di metodo
Avere metodo spesso aiuta a tagliare i grandi traguardi. Enologicamente parlando chi ha deciso di adottarne uno, non solo ha conservato la propria azienda, ma le ha anche assicurato un avvenire piuttosto solido. Certo, ricorrere al metodo, nello specifico classico, …Leggi tutto
Avere metodo spesso aiuta a tagliare i grandi traguardi. Enologicamente parlando chi ha deciso di adottarne uno, non solo ha conservato la propria azienda, ma le ha anche assicurato un avvenire piuttosto solido.
Certo, ricorrere al metodo, nello specifico classico, per una realtà vitivinicola significa munirsi, ancora prima delle bollicine, di tecnologie e spazi adeguati in cui impiegarle.
Se il metodo classico necessita di queste peculiarità produttive, non di meno le esige anche il metodo Martinotti. L’allora direttore dell’Istituto Sperimentale di Enologia di Asti (siamo verso la fine del 1800) ebbe l’intuizione di sottoporre il vino a una seconda fermentazione, responsabile delle bollicine, servendosi di grandi recipienti (oggi si utilizzano le autoclavi).
Il francese Charmat ebbe invece il merito di brevettare l’idea, costruendo anche l’attrezzatura necessaria. Questo gesto gli permise così di condividere con il professore piemontese le pagine sui libri di storia enologica. Il metodo Martinotti non si può paragonare o confrontare con il metodo classico: se da una lato i risultati, per quanto effervescenti, sembrano simili, in realtà sono piuttosto diversi tra loro.
Innanzitutto il metodo Martinotti facilita le tempistiche di spumantizzazione, ma non ha benefici altrettanto rilevanti in relazione ai costi complessivi di gestione. Proseguendo con l’analisi va ribadito come la bollicina ottenuta mediante la rifermentazione in autoclave, non è cosi soffice e piccola come quella del metodo classico, ma soprattutto questo tipo di tecnica spumantistica si applica a vini cosiddetti d’annata, cioè di pronto consumo, e, nello specifico, a varietà vitivinicole aromatiche o semiaromatiche.
Il metodo Martinotti evidenzia il profilo fruttato dei vini che si andranno a produrre. Per questo sempre più produttori ricorrono a questa metodologia produttiva, soprattutto in relazione a numerosi vitigni autoctoni italiani. Gli esempi si sprecano. Dalla Ribolla Gialla di Eugenio Collavini, fino al Pignoletto (uva bianca tipica dei colli bolognesi) delle cantine Umberto Cesari. C’è anche chi va in controtendenza. Silvano Follador, pur trovandosi in terra di metodo Martinotti (siamo nel cuore del Prosecco) utilizza per il proprio Glera il metodo classico.
Collavini Ribolla Gialla Brut
(86/100 al vino, 90/100 in abbinamento)
Un’assoluta di Ribolla Gialla, vitigno tipico friulano che, per questo vino, riposa sui lieviti per ben 28 mesi. Colore giallo paglierino con leggere sfumature verdi. Naso di ricco di sensazioni fruttate di agrumi e pesca a pasta bianca. Bocca snella, invogliante, ricca di rimandi fruttati. Da provare con un risotto ai fiori di zucca.
Umberto Cesari Pignoletto frizzante IGT Emilia 2010
(82/100 al vino, 91/100 in abbinamento)
Vitigno dei colli bolognesi dal tipico finale lievemente amarognolo. Perlage vigoroso. Naso ricco di note floreali e fruttate. Il sorso è la sua dote migliore, con ricordi molto nitidi di agrumi (pompelmo), pesca ed erbe aromatiche. Indovinato in abbinamento con un tortellone di ricotta burro e salvia.
Silvano Follador Prosecco Superiore Brut Dosaggio zero 2010
(90/100 al vino, 94/100 in abbinamento)
Glera come non te la aspetti. Dimenticate il Prosecco fruttato ricco di zucchero, perché grazie a questo vino scoprirete una bollicina affilata, fresca, ricca di tipicità fruttate che, sia al naso sia in bocca, hanno i toni croccanti della mela granny smith, della pera kaiser e della susina. Imperdibile accanto ad una mozzarella in carrozza.