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Io, C-3PO vi racconto Star Wars, visto dal Robot

incontro con Anthony Daniels, l'attore che dà vita a C-3PO di Guerre stellari la star più "sconosciuta" di Hollywood

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Come mi sento ora che siamo arrivati al capolinea? Be’ non posso certo dire di essere stato colto di sorpresa» dice sfoderando il suo umorismo british. E con la pazienza di un maestro di scuola, spiega: «Con L’ascesa di Skywalker, nei cinema di tutto il mondo dal 18 dicembre, è la terza volta che do l’addio a una trilogia, dopo Il ritorno dello Jedi (1983) e La vendetta dei Sith (2005). E pensare che ero convinto che sarebbe stato un lavoretto di 12 settimane al massimo, non di 44 anni…».

Anthony Daniels, 73 anni, si autodefinisce «la superstar più sconosciuta di Hollywood». Pur essendo l’unico attore del cast di Guerre stellari (finora 5,6 miliardi di incasso totale, senza calcolare la svalutazione) apparso in tutti i nove film, la sua faccia la conoscono in pochissimi. Per tutti gli altri è il «robot della galassia accanto», oppure «il droide dalla maschera dorata».

Insomma il meccanico C-3PO, assemblato sul pianeta Tattoine con pezzi di recupero da Anakin Skywalker, il più sorprendente membro della Resistenza prima contro l’Impero Galattico e poi contro il Nuovo Ordine. È un droide protocollare, antropomorfo e si distingue dall’inseparabile collega  R2-D2, proveniente da pianeta Naboo, che è alto la metà ed è una scatoletta cilindrica semovente su tre gambe, di cui una estraibile (Kenny Baker, l’attore alto 1,12  che lo interpretava, è morto nel 2016, a 81 anni). Sulla sua carriera davvero unica Daniels ha appena pubblicato il libro I am C-3PO, sottotitolo The inside story, gioco di parole sulla sua vita nascosto dentro un corpo di metallo non suo.

Il libro è nato poco a poco, come una sorta di diario, prendendo appunti film dopo film, o l’ha invece scritto di getto, andando indietro con la memoria?

Non ho neanche mai realmente deciso io di scriverlo, me l’hanno chiesto: «Ce la fai a scrivere 40 mila parole sull’esperienza tua e di C-3PO?». E allora mi sono messo a ricollegare fatti e ricordi dei film ma anche delle mille manifestazioni dedicate ai fan a cui ho partecipato, non solo come invitato, ma spesso come narratore col titolo altisonante di Maestro di cerimonie. Alla fine, le parole sono diventate 95 mila.

Bilancio?

L’attore è sì un mestiere duro, ma ha un sacco di tempi morti, a differenza dello scrivere, che oltretutto è un’occupazione totalmente solitaria. Tutta la mia solidarietà all’amato Charles Dickens, che scriveva a mano, senza nemmeno l’aiuto di tastiera e computer. Per non parlare del correttore automatico...

Come diavolo è finito dentro a un robot?

È stato il mio agente a insistere, io non volevo neanche fare il provino con George Lucas, malgrado lo presentassero come un regista trentenne che aveva già fatto un film di successo, American Graffiti, prodotto da Francis Ford Coppola e candidato a cinque Oscar. 

E perché mai?

Il ruolo mi era francamente sembrato ridicolo e anche offensivo. Recitavo in teatro in Rosencrantz e Guildenstern sono morti, un dramma di un autore molto intellettuale, Tom Stoppard, sui due personaggi che sono amici d’infanzia di Amleto, nella tragedia di Shakespeare. E in più odiavo cordialmente la fantascienza. Avevo visto un solo film appartenente al genere, 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, ed ero uscito dopo 10 minuti, chiedendo che mi restituissero i soldi del biglietto. Ma senza successo...

E poi cosa l’ha convinta?

Lucas era un tipo molto pacato, farneticava di western spaziali, dei film di samurai di Akira Kurosawa e dei saggi sulla mitologia di Joseph Campbell. Mi era sembrato un po’ svitato, ma degno di fiducia. Me ne sono pentito per tutte le riprese che sono state faticosissime. Il costume, che io chiamavo corazza, era claustrofobico, la visione solo periferica, la sabbia del deserto entrava dovunque impiastricciandosi con la vaselina con cui dovevo spalmare il corpo. C’era una frase che dicevo con tutto il cuore: «Sembra che siamo fatti per soffrire, è il nostro destino nella vita!». Fra i sei milioni di modi di comunicare che C-3PO conosce, io avevo scelto un puro accento oxfordiano, ma un giorno Lucas minacciò di farmelo sostituire con quello di un venditore di macchine usate del Bronx. Insomma, pensavo davvero che non ci sarebbe stata una seconda volta, invece ce ne sono state altre otto. E entro il corpo di C-3PO, ho avuto perfino l’onore di lasciare le proverbiali impronte dei piedi e delle mani sul selciato del Chinese theatre, in mezzo alle leggende del cinema.

La performance di cui è più fiero?

Riuscire a far ballare C-3PO nel Muppet show senza uccidermi, è stato veramente notevole.

È vero che prima di cominciare questa ultima trilogia, il regista J.J. Abrams le aveva offerto di farsi sostituire da un altro mimo dentro

il robot, limitandosi a dargli voce?

Sì, ma francamente che senso avrebbe avuto? Dopo tanti anni: «C-3PO sono me…». E anche quando come in Gli ultimi Jedi ho fatto poco, mi ero sentito prezioso come un soprammobile di famiglia, un cimelio  al centro della tavola. Ma stavolta è tutta un’altra storia, sono stato ripagato in questo film finale, in cui ho perfino un paio di battute da occhi lucidi… 

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Marco Giovannini