Il testamento (sportivo) di Andrea Agnelli
Fuori dalla Juventus e da tutte le società del Gruppo. l'ormai ex presidente prepara la difesa dalle accuse della Procura di Torino. Ma il suo addio è un manifesto sui problemi del calcio e dello sport di oggi - PERCHE' AGNELLI E' STATO UN OTTIMO PRESIDENTE
L'ultimo dei 4.627 alla guida della Juventus è stato per Andrea Agnelli un giorno pieno di contenuti e simboli. La commozione per l'addio al club e all'azienda del cuore, il passo indietro annunciato da tutte le società del Gruppo quotate in Borsa, specificando di essere in piena sintonia con il cugino John Elkann. E anche la rivendicazione del percorso fatto. Non solo le vittorie di 13 anni che hanno rappresentato per la Juventus uno dei momenti più alti di una storia centenaria, ma investimenti, progetti e visioni. E anche l'ultima e sanguinosa guerra politica che lo ha visto mettersi contro la Uefa e i governi di mezza Europa e che solo quando la Corte UE, nella prossima primavera, avrà espresso il proprio giudizio si potrà valutare se vinta o persa.
Un testamento (sportivo) che potrebbe anche diventare il manifesto per la nuova vita di quello che per un decennio è stato il dirigente più influente del calcio italiano ed europeo, soprattutto se da Lussemburgo dovesse arrivare un verdetto in discontinuità con lo statu quo dello sport nel Vecchio Continente e con il parere non vincolante espresso dall'avvocatura generale della stessa Corte nelle scorse settimane. In mezzo ci sarà anche il sommarsi delle vicende di giustizia sportiva e ordinaria lasciate in eredità dall'inchiesta Prisma sui bilanci dell'ultimo triennio di Juventus da cui Agnelli cercherà di uscire affermando la correttezza del proprio operato. Operazione complessa, almeno nella lettura delle carte dell'accusa che sono state fin qui l'unico testo a disposizione prima che nelle diverse aule ci sia spazio anche per la difesa.
"Se avessi voluto mantenere una posizione di privilegio, tenendo la mia carica nell'Eca, nella Uefa e nella Figc, non avrei preso le decisioni che ho assunto nel 2021" è stato il passaggio centrale. La decisione di strappare una tela consumata in nome di una visione sulle ragioni della crisi del sistema calcio. Non solo in Italia, ma ovunque tranne che nella ricchissima Premier League inglese "che in pochi anni attrarrà tutto il talento europeo" se non si faranno riforme strutturali che evitino "il declino irreversibile" di tutto il movimento, inglesi esclusi.
"Il fatturato del calcio è di 55 miliardi di euro e occupa 700mila persone" ha ricordato Agnelli, auspicando che la Corte UE lo riconosca "come industria" costringendo così all'applicazione delle norme comunitarie e mettendo fine al monopolio della Uefa la cui colpa, secondo l'ormai ex presidente della Juventus, è "non voler ascoltare i problemi della industry preferendo mantenere una posizione di privilegio".
Il futuro è segnato senza riforme. Il presente è uno scenario in cui il pallone sta progressivamente e inesorabilmente perdendo appeal nella competizione tra forme di intrattenimento ("Parliamo di 750 miliardi di euro che comprende gaming, musei, attività da tempo libero"). Anche se continua ad attrarre investitori - "consorzi come il Chelsea, RedBird per il Milan, il fondo Pif per il Newcastle, un consorzio diretto da Pagliuca per l'Atalanta, la Liga che ha raggiunto un accordo sui 50 anni valorizzandola con operazioni fatta da CVC" - e cambiare forma. La sfida delle multiproprietà, la volontà di QSI di entrare nel business, l'attenzione crescente dei fondi anche verso la Serie A e gli altri campionati di primo livello. Insomma, un ecosistema in profonda mutazione ma legato ancora a vecchie regole ed equilibri ormai fuori dal tempo.
Il rimpianto? Fino al 2019 l'analisi era evidente anche a livello delle istituzioni del calcio europeo: "La proposta era una creazione di ecosistema per le leghe principali, che aumentasse la stabilità e il rischio d'accesso è tra i più grandi. Che mantenesse la simbiosi tra i campionati domestici e quelli internazionali". Poi lo tsunami della pandemia, la crisi profondissima e la rottura. Con una stoccata ai conservatori: "Da quando la Serie A è una lega unica, quasi cento anni, ci hanno giocato solo 68 squadre, alcune delle quali davvero di passaggio". Come a dire ai teorici della meritocrazia a prescindere che la realtà è sempre stata diversa. E che senza intervenire è destinata solo a polarizzarsi definitivamente.