I conti del calcio europeo (a rischio)
La pandemia rischia di mettere in ginocchio un sistema che finaniariamente era in salute, con alcune diversità tra ricchi e poveri
In dieci anni dal 2009 al 2018 l'industria del calcio ha raddoppiato il suo valore in Europa vedendo crescere il volume d'affari da 11,7 a 21 miliardi di euro. Ma a beneficiare della ricchezza piovuta sul pallone sono stati pochi, mentre la maggior parte del sistema è rimasta a galleggiare a pelo d'acqua col rischio, alla prima tempesta, di finire sotto. Come puntualmente accaduto con la crisi pandemica che ha soffocato le fonti di approvvigionamento del pallone mettendo a rischio i bilanci di tutti, big e piccoli. Le due velocità del calcio, però, hanno avuto un prezzo che stanno pagando tutti: la perdita di equilibrio competitivo. Quel baco per cui in Italia lo scudetto lo vince la Juventus consecutivamente dal 2012, il Bayern Monaco conquista la Bundesliga dal 2013, il Psg lo ha fatto in 7 delle ultime 8 stagioni francesi e anche nella ricca Inghilterra la polarizzazione sta diventando un rischio concreto.
Un piano inclinato che si è accentuato dal 2018, in concomitanza con l'ultima assegnazione (e spartizione) dei diritti tv della Champions League che sta adesso cercando l'assetto per gestire il triennio 2021-2024 con un occhio su cosa accadrà a partire dal 2024, con gli appetiti dei grandi club di creare un circolo sempre più esclusivo per veder crescere i propri ricavi. La fotografia dell'ultimo decennio del calcio europeo è scritta nel report 'The financial landscape of European football' firmato dall'European Leagues, l'associazione che rappresenta gli interessi delle leghe professionistiche del Vecchio continente. Tiene insieme ricchi e poveri, che sono la maggioranza se è vero che solo 98 club su oltre 700 delle federazioni affiliate alla Uefa dichiara fatturati superiori ai 50 milioni di euro. Tutti gli altri sono sotto con numeri, spesso, da lillipuziani.
LA FORBICE TRA RICCHI E POVERI
Il 2018 è l'anno chiave, quello che ha ampliato la forbice tra la borghesia e il ceto medio del calcio europeo. In un sistema sempre più legato ai ricavi derivanti dalle coppe europee (soprattutto la Champions League), il cui peso è salito dal 6% al 10% nell'ultimo decennio mentre quello degli introiti da stadio scendeva dal 21% al 15%, la differenza l'ha fatta lo schema di suddivisione del tesoretto della manifestazione più ricca. La Champions protetta (4 club fissi per le 4 nazioni in testa nel ranking Uefa), con valorizzazione dei risultati storici e meno spazio per gli altri ha consentito che i ricavi dei primi dieci club per fatturato crescessero dal 212% contro il 150% della media degli altri. E più anche del 187% delle società appartenenti alle Top5 leghe (Inghilterra, Germania, Spagna, Italia e Francia) ma fuori dal giro delle multinazionali.
Neanche restare dentro l'Europa League con una certa costanza ha evitato il distacco dal vagone di testa. Il motivo? E' vero che la seconda coppa per importanza ha visto accrescere il proprio valore, ma il rapporto con la Champions League è rimasto di uno a 3,5: 411 milioni contro 1,962 miliardi di euro. Soldi poi riversati sul mercato per rendere sempre più forti le rose di poche squadre e sempre meno equilibrata la competizione internazionale e soprattutto interna.
UN MERCATO CHIUSO DOVE I SOLDI NON CIRCOLANO
L'altra faccia della medaglia è il progressivo rinchiudersi delle grandi in un microsistema sempre meno connesso al resto della piramide. Nel 2018, ad esempio, i club europei hanno toccato la punta degli 8 miliardi investiti sul calciomercato con uno sbilancio di quasi 2. Una corsa inarrestabile: nel 2017 erano 6 e nel 2015 poco più di 4. Dunque il raddoppio in meno di un lustro senza, però, una redistribuzione in tutto il sistema perché l'89% degli acquisti delle società appartenenti alle Top5 si è concentrato su calciatori provenienti dallo stesso cluster e solo una piccola fetta è arrivata a pioggia alle leghe minori.
Sono stati gli anni dell'esplosione delle plusvalenze e degli ingaggi, un altro tassello della diseguaglianza crescente che rischia di uccidere la competizione. Per quanto in crisi anch'esse, le big del calcio europeo sono le sole ad aver accompagnato l'impennata dei costi dei tesserati nell'ultimo decennio (+90,8%) con una pari crescita dei ricavi complessivi (+95,6%); tutti gli altri sono andati in rosso con la prospettiva di una progressiva ritirata dal mercato.
LA RICETTA PER IL FUTURO
Nelle settimane in cui il dibattito su come suddividere il denaro nel triennio 2021-2024 diventa centrale, ecco allora le proposte dell'European Leagues da sempre contraria ai progetti di una Champions League ristretta. Più soldi nel contributo di solidarietà per chi resta fuori dal circolo delle manifestazioni Uefa – da 140 a 280 milioni di euro a stagione -, il congelamento del montepremi della Champions League a 1,9 miliardi facendo crescere nel contempo quello dell'Europa League e della nascente Conference League a 700 milioni in modo da avere un rapporto tra Champions ed Europa League di 1 a 4.
Parola d'ordine: ridistribuzione delle ricchezze. Tema delicato in un momento di crisi, con anche le multinazionali costrette a fare i conti con bilanci tagliati dal Covid e costi operativi che si fatica a comprimere a partire dagli ingaggi dei calciatori con i quali non basta l'opera di moral suasion per arrivare ad accordi che sanciscano risparmi concreti. Sullo sfondo la battaglia per i calendari e i format dal 2024. Ufficialmente lo strappo della Superlega non è argomento sul tavolo di nessuno. Ma il sospetto che l'idea di costruire un sistema che privilegi le garanzie di un gruppo ristretto di club affiora ogni volta che l'argomento viene toccato. L'ultimo in ordine di tempo è stato il presidente uscente del Barcellona, Josep Maria Bartomeu. Sulla Superlega o Super Champions il fronte rischia di spaccarsi: in gioco c'è il futuro del calcio europeo e mondiale con interessi così contrapposti da immaginare difficile qualsiasi mediazione per cercare di tenerli insieme.