Dopo il caos sul Decreto Crescita è ora di considerare il calcio per quello che è: un'azienda
Dietro la decisione del governo c'è soprattutto la considerazione errata che il pallone sia una cosa inutile per miliardari viziati. ma non è così
Quello del Decreto Crescita è un bel pasticcio, bello grosso. Perché l’errore del Governo è doppio: nel metodo e nel merito. Cominciamo da quest’ultimo.
Dietro la decisione dell’esecutivo c’è un ragionamento semplice: il decreto crescita sfavorisce i giocatori italiani a favore di quelli stranieri (o degli italiani all’estero da almeno due anni) grazie ad agevolazioni fiscali particolari. E questa è «discriminazione». Che lo sia è indubbio ma lo è ogni altro tipo di agevolazione prevista da vecchie o nuove norme fiscali e/o politiche. Esempio: lo stato decide di agevolare le assunzioni dei giovani eliminando ogni tipo di tassazione. Oppure offre uno sconto alle imprese che assumono al sud o in zone di difficoltà; o, ancora, aiuta determinate categorie di persone o di aziende da rilanciare. Tutte scelte anche giuste, basate su ragionamenti ed evidenze sociali ed economiche. Ma sono tutte discriminazioni? Perché un 20 enne dev’essere trattato meglio di un 50enne? Perché una persona che vive in una regione dev’essere tratta peggio di chi vive in un altro luogo per un semplice motivo di residenza?
C’è poi la questione del metodo. Giorni fa, durante uno degli abituali brindisi organizzati dalle squadre di serie A per il Natale, un grande dirigente chiacchierando tra una tartina ed un prosecco alla domanda su come sarebbe andata a finire la questione del Decreto Crescita ha così risposto: «Ci diranno qualcosa all’ultimo minuto, magari il 31 dicembre, a mezzanotte…». Non ci è andato molto lontano, ha sbagliato di 24 ore. In più va aggiunto che non solo la cosa è stata decisa all’ultimo momento utile ma che c’è stato un cambio di linea in piena serata dopo che nel pomeriggio la proroga fino a febbraio se non al 31 marzo era data per certa. E questo basterebbe.
Ma la frase del noto dirigente in realtà proseguiva con una considerazione che è il vero nocciolo della questione: «In questa situazione noi, come azienda, come facciamo a programmare, a lavorare?».
Potremmo fare anche noi del populismo, perché c’è anche del populismo nella scelta dell’esecutivo ma vogliamo portare ad una riflessione più alta, quella che da troppo tempo nessuno ha avuto il coraggio di fare: il calcio non è un gioco per giovani viziati, miliardari, in pantaloncini. Il calcio è un’azienda; un’azienda dall’ìmpatto economico di 24,5 mld di euro che vale il 3% del Pil. Stando ai dati del 2022 preparati dalla FIGC per ogni euro investito dallo Stato nel calcio il ritorno è stato di 18,3, quasi venti volte l’anno. Il calcio è un’azienda che dà lavoro ad oltre 50 mila persone, e che al fisco fa tornare diversi miliardi. In ultimo il calcio di fatto è il maggior contribuente delle casse del Coni, centinaia di milioni di euro che poi finiscono nelle casse, molto più sofferenti, delle federazioni degli altri sport che altrimenti avrebbero guai enormi se volessero provare a sopravvivere in maniera autonoma. In pratica il sistema sport paese sta in piedi grazie al calcio, all’azienda calcio.
Un’azienda che, ad esempio, non riceve alcun tipo di aiuto dalla politica nazionale e locale ad esempio per la costruzione dei nuovi stadi. Il caso di Milano è emblematico di un sistema che mette i freni ai nuovi impianti (salvo poi a poche centinaia di metri dare il via libera a parcheggi, centri commerciali, palazzotti di ogni tipo).
Il vero problema è quindi culturale, non politico o sportivo. Ma oggi i politici sono ancora fermi ai discorsi da bar per cui siccome siamo un paese senza soldi allora per prima cosa dobbiamo togliere soldi al calcio dei miliardari viziati.
Al netto quindi degli errori fatti sul Decreto Crescita che ormai è passato quello che il calcio merita è una considerazione diversa e più il linea con i tempi e la realtà. Punto.