La fine del mito del fair play inglese
Attacchi razzisti ai calciatori, fischi all'inno italiano, risse a Wembley e la fuga dalla cerimonia di premiazione: cosa succede al tanto celebrato modello della Premier League? - WEMBLEY, RISSE E VIOLENZA ALLA FINALE
Lo tsunami di insulti a sfondo razzista contro gli sventurati del dischetto, colpevoli di aver distrutto il sogno di un'intera nazione, è diventato caso politico e internazionale. Boris Johnson ha messo per iscritto la sua indignazione seguito dalla Uefa: compatti nello stigmatizzare quello che è solo l'ultimo atto di una finale che, oltre a spengere le speranze di titolo dell'Inghilterra, ne ha distrutto anche il mito del fair play e della capacità di vivere il calcio come un momento di festa in grande sicurezza, con stadi accoglienti, ambiente sereno e controllo assoluto delle forze dell'ordine.
La finale contro l'Italia ha messo a nudo le crepe del modello inglese. Tutte, impietosamente. Dalla gestione dell'ordine pubblico, con gli stewards presi d'assalto da bande di supporter privi di biglietto e intenzionate ad entrare comunque a Wembley (fermate da altri tifosi a suon di calci e pugni), al modo in cui la nazionale dei Tre Leoni ha accettato sul campo una sconfitta bruciante ma prodotto del campo. Soprattutto il primo tema preoccupa, anche perché i segnali di un logoramento si erano colti anche nei mesi scorsi, quelli delle proteste contro la Superlega, dei supporter di nuovo al centro della scena, dell'invasione di campo all'Old Trafford e della campagna anti-Gattuso orchestrata dai fan del Tottenham.
La domenica di Londra è stata una Caporetto. Orde di tifosi ubriachi fin dalle prime ore del mattino, nessuna attenzione a fronte di una situazione Covid preoccupante nel Regno Unito più che altrove in Europa, atti di intimidazione nei confronti degli italiani e l'assalto ai tornelli da parte di gruppi di senza biglietto. Polizia e steward hanno fallito nella prevenzione e nel controllo. C'è chi ha raccontato di aver trovato il proprio posto occupato all'interno dello stadio senza che nessuno intervenisse per ristabilire la situazione. Scene che hanno fatto il giro del mondo e che hanno reso ancor più negativa l'immagine di una nazione e di una nazionale attorno alla quale sembrava cucito l'Europeo, vissuto nella sua fase finale quasi con spocchia come se davvero "Football is coming home", dovesse tornare a casa e basta con gli altri vittime sacrificali.
Non è andata così. Ha vinto l'Italia. E dopo averne fischiato l'inno all'inizio, malgrado la supplica del ct Southgate di evitare manifestazioni di dissenso e dissacrazione, gli inglesi hanno anche compiuto il capolavoro di andarsene prima della fine. Non dei rigori, che hanno seguito con trasporto e passione al pari degli altri 120 minuti, ma dell'intera serata che prevedeva la consegna della coppa al vincitore. E' avvenuta in un Wembley svuotato, come non riguardasse anche loro.
Wembley che ha assistito anche alla passerella dei calciatori di Sua Maestà impegnati a sfilarsi la medaglia d'argento dal collo pochi istanti dopo averla ricevuta dal presidente Uefa Ceferin. La scena ha colpito molti ed è piaciuta a pochi, anche in Patria. Che ha dei precedenti, ma unita al resto ha rimandato l'immagine di un popolo incapace di coltivare quella sportività a lungo accreditata. Come se giocarsi in casa l'Europeo che doveva rompere il tabù lungo 55 anni avesse fatto perdere di vista l'equilibriuo faticosamente creato nei decenni post Heysel. Quelli dell'innocenza improvvisamente perduta nella domenica che ha visto l'Italia salire sul tetto d'Europa e l'Inghilterra scivolare nel fango.
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