Luis Enrique, il Signore amico dell'Italia
La grande compostezza del tecnico della Spagna dopo l'addio all'Europeo. La storia di un ct con alle spalle un dramma e tante critiche, ma che ci ha sempre voluto bene
Luis Enrique Martinez Garcia, meglio noto come Luis Enrique e 'Lucho' per gli amici, ci vuole bene. E' innamorato dell'Italia e degli italiani anche se non lo abbiamo mai trattato molto bene. Anzi. Lo abbiamo preso a gomitate, gli abbiamo spaccato naso e labbra consegnandolo alla storia con la maglietta della sua Spagna roja (rossa) di sangue. Lo abbiamo anche un po' preso per il sedere quando, ormai dieci anni fa, si è trovato a guidare la Roma nella prima vera tappa della sua carriera da allenatore. Settimo posto in campionato, fuori ad agosto dall'Europa e a gennaio dalla Coppa Italia. 'Scucchione' e 'Demental Coach' lo avevano rinominato i tifosi giallorossi che gli dedicarono anche uno striscione cattivo ed eccessivo: "Vattene da Roma, s'è liberato un posto al Barcellona". Presi di parola, ma questa è un'altra storia nella quale Luis Enrique ha continuato a volerci bene e a prenderci come esempio, anche se nemmeno il Triplete conquistato nel 2015 sulla panchina dei blaugrana è stato sufficiente a riabilitarlo agli occhi dei criticoni di casa nostra.
"Vince solo perché ha la squadra più forte, provate voi a perdere con Messi e Neymar…" era il ritornello. E lui zitto, imperterrito. Ci ha voluto sempre bene, nella buona e nella cattiva sorte. Ecco perché non sorprende (chi lo conosce) lo stile con cui Lucho è uscito dalla notte di Wembley che gli ha consegnato una delle delusioni sportive più acute. Sportive, però, non altro. Perché Luis Enrique Martinez Garcia è un uomo tutto d'un pezzo cui la vita non ha riservato solo vittorie, sorrisi, luci della ribalta e qualche fisiologico sfondone sportivo che non manca mai, nemmeno nelle carriere più belle.
E' un uomo che nel mezzo della sua grande avventura sulla panchina della Spagna, difesa da calciatore indossandone 61 volte la maglia più una, quella famosa del naso rotto dal gomito di Tassotti (perdonato da tempo) in un quarto corrida al Mondiale '94, è stato costretto a fermare tutto. E a vivere la vicenda drammatica della perdita di una figlia, adorata, vinta a 9 anni da un terribile tumore alle ossa. Uno stop che ha cambiato tutto e rimesso tutto nella giusta prospettiva.
Può un uomo passato da lì disperarsi per un rigore sbagliato dal suo centravanti? Certo che no. E, infatti, Luis Enrique non si è disperato. E ha detto che nonostante il dispiacere ama così tanto l'Italia, il suo cibo, la sua gente, la cultura, il sole e anche Roma – romanisti compresi – da tifare per noi quando sarà il momento della finale che avrebbe potuto essere sua. Roba da miele e attacchi di diabete se non fosse noto a chi lo conosce che Luis Enrique non è un romanticone ma un uomo spigoloso, aspro, che litiga con i giornalisti in sala stampa e impone la sua leadership nello spogliatoio, che ha diviso la Spagna a metà quando, dopo il lutto, è tornato a guidare la nazionale licenziando dalla sera alla mattina l'(ex) amico di una vita che ne aveva preso temporaneamente il posto. Che a Roma non si è fatto scrupoli a sbattere in tribuna un monumento come De Rossi per un minuto (60 secondi mal contati) di ritardo alla riunione tecnica. Che ha difeso il suo centravanti davanti alle critiche e agli insulti dei leoni da tastiera, lo ha coccolato e protetto ma poi messo fuori nella notte più importante della sua carriera. Che ha vinto e perso con le sue idee sempre, quando aveva Messi e Neymar e quando si è trovato per le mani materiale umano meno performante. Per la cronaca, quel Barcellona dei 9 titoli in tre stagioni lasciato nel 2017, dopo di lui è progressivamente finito ai margini della lotta tra i grandi d'Europa.
Tutto questo per dire che Luis Enrique è un signore con la S maiuscola, ma solo i meno attenti lo hanno scoperto tra una birra e l'altra dopo la semifinale vinta dall'Italia contro la Spagna. E' semplicemente un uomo che dove è stato e se n'è andato, poi quasi sempre è stato rimpianto. Non da quelli dello striscione dell'Olimpico, forse. Certamente da chi lo ha vissuto da vicino. Leggere Francesco Totti nella sua autobiografia alla voce Luis Enrique nel giorno dell'annuncio dell'addio: "Provo un dolore lancinante, quello che spesso mi ha colto in carriera davanti a un congedo ma un po' più forte perché Luis Enrique mi lascia qualcosa dentro. Il ricordo di una persona vera. Lo abbraccio e abbiamo entrambi gli occhi umidi". Anche per quell'abbraccio, forse, Lucho ha continuato a volerci bene anche se quando ci ha incontrato gli andata quasi sempre male.