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Calcio

Perché il Marocco non è un miracolo

Storia dell'exploit della prima nazionale africana in semifinale in un Mondiale. Talenti top in Europa e un tessuto forte in casa: così si è riappropriato dei propri valori senza disperderli

Può essere che la favola del Marocco sia destinata a scrivere l’ultimo capitolo incrociando la fortissima Francia. O che, invece, possa proseguire ancora rendendo il Mondiale del Qatar più unico di quanto già non sia, tra polemiche per l’assegnazione, tuffi nel futuro (non sempre raccomandabile) del pallone e suggestioni di campo. Comunque vada a finire, la squadra di Walid Regragui, tecnico rivelazione in mezzo a tanti santoni, ha lasciato le sue impronte nella storia e così come accadde per il Camerun del 1990 ci sarà un prima e un dopo. Non è un miracolo, quello del Marocco, ma il frutto di una solida programmazione e del talento miscelato con la forza dello spirito e dell’identificazione totalitaria dei calciatori che compongono la rosa portata in Qatar per arrivare fino in fondo. Facile dirlo adesso, ma c’è chi lo sosteneva anche due mesi fa: Regragui, il ct che ha messo insieme tutte queste cose, non si è mai nascosto dietro il pronostico sfavorevole e ha sempre dichiarato di essersi messo in viaggio per giocare sette partite. Che significa arrivare alla finale di domenica 18 dicembre ma, in senso stretto, anche semplicemente entrare nell’élite delle semifinaliste garantendosi la permanenza nel deserto di Doha fino all’ultimo giorno.

Il Marocco è andato avanti mettendo sotto Belgio, Spagna e Portogallo – quasi la meglio Europa – perché è una squadra che ha grandi valori in campo. Qualche nome? Hakimi è uno dei laterali destri più forti al mondo, gioca nel Psg e in nazionale completa una catena formidabile con Zyiech del Chelsea, uomo da mesi sul taccuino del Milan. Oppure Mazraoui che viene dal Bayern Monaco, anche lui abituato ai grandi palcoscenici europei. Le stelle non mancano, insomma, ma tutto intorno c’è un contorno di ragazzi che nel Vecchio Continente non sono ancora emersi ma che hanno una solida esperienza professionale: l’eroico portiere Bounou e il cannoniere En-Neysiri del Siviglia, Amrabat che conosciamo con la maglia viola della Fiorentina o la rivelazione Ounahi dell’Angers che ha stregato tutti compreso Luis Enrique, il quale ha candidamente ammesso di non ricordarsi il nome di quel ragazzo che lo aveva fatto ammattire in mezzo al campo.

Giovani, forti e motivati. Nati in mezza Europa (14 sui 26 chiamati da Regragui) e spesso pure cresciuti calcisticamente lontani da Rabat. Con loro, però, anche l’ossatura della squadra rivelazione delle ultime stagioni in Africa, il Wydad Casablanca vincitore della Champions League africana nel maggio scorso. Un gruppo ben assortito, insomma, come hanno dimostrato le peripezie attraverso cui è passata una nazionale non fortunata in Qatar, bersagliata dagli infortuni eppure capace di superarsi sempre. Per arrivare in fondo dovrà essere ancora così, altrimenti la qualità enorme della Francia avrà la meglio, ma Deschamps sa di non poter sottovalutare l’avversario che fin qui è stato perforato solo dal fuoco amico di un’autorete nella sfida contro il Canada e poi è rimasto imbattuto per le altre quattro gare disputate.

La crescita del Marocco nasce dai denari versati dalla Fifa alle federazioni deboli del mondo. Una pioggia di milioni che sono stati utilizzati fortunatamente bene e hanno consentito di creare un centro federale dove lavorare sui talenti del luogo. Non una ricetta rivoluzionaria: Belgio, Germania e Francia già da anni si muovono su questa linea di pensiero e i risultati, a cicli alterni, si sono visti. Il boom marocchino riguarda anche le donne, qualificate per la prima volta alla fase finale del Mondiale che si disputerà nel 2023 in Nuova Zelanda. E molte rappresentative giovanili. Ce n’è abbastanza per ritenere, insomma, che non si tratterà di un semplice fuoco come lo sono state altre nazionali africane che hanno fatto sognare ma poi sono rientrate nell’anonimato.

Ultimo dato: molti dei giocatori di Regragui hanno avuto nel corso della loro adolescenza la possibilità di prendere altre strade calcistiche ma alla fine sono tornati alla madre patria. Amrabat, ad esempio, fino ai 16 anni ha indossato la maglia dell’Olanda così come Ziyech e Aboukhlal. Sabiri è arrivato fino all’under 21 della Germania prima della scelta definitiva. Cheddira, attaccante del Bari nato ad Ancona, ha in tasca un passaporto anche italiano ma ha confessato di non aver mai ricevuto proposte dalla Figc e che in ogni caso le avrebbe declinate. Zaroury stesso percorso degli altri ma con il Belgio. Questo Marocco è, dunque, un simbolo di riappropriazione del proprio talento da parte di un movimento africano. Per questo, più che per ogni altra suggestione, è una bella favola e un monito: a pallone si gioca, bene, anche nel continente nero. E se riesce a non disperdere i suoi valori può diventare competitivo per tutto, anche per un Mondiale giocato nel mezzo del deserto.

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Giovanni Capuano