Perché l'Italia non può perdere l'Europeo a Roma
L'ultimatum della Uefa, la supplica della Figc al presidente Draghi e il balletto intorno alla percentuale di riapertura dello stadio Olimpico nel mese di giugno
L'Italia rischia seriamente di perdere l'organizzazione delle quattro partite dell'Europeo rimandato la scorsa estate causa Covid e riprogrammato dal prossimo 11 giugno. Non è un pericolo da prendere alla leggera perché la Figc non è stata in grado fino a questo momento di produrre alla Uefa le garanzie necessarie per vedersi confermare l'evento senza margine di ripensamento. Non è bastata la generica disponibilità espressa dal Governo a Nyon prima della scadenza del 7 aprile: gli organizzatori vogliono precisi impegni sulla percentuale di riapertura degli stadi (nel caso italiano lo stadio Olimpico di Roma) con numero non inferiore al 25%. E su questo scoglio si è arenata, per ora, la macchina italica.
Perché poche ore dopo la lettera inviata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, alla Uefa è arrivata la frenata del Comitato Tecnico Scientifico. Che non ha detto no, ma ha allungato i tempi per la scrittura delle regole e la certificazione dei numeri così in là, legandolo all'andamento della campagna vaccinale e della curva pandemica, da aver reso quasi privo di sostanza il passo dell'esecutivo.
Non siamo gli unici in questa situazione. Anche Germania (Monaco), Spagna (Bilbao) e Irlanda (Dublino) hanno ricevuto l'ultimatum: entro il 19 aprile devono presentare per iscritto il piano effettivo con tanti di numeri e percentuali altrimenti le gare saranno riassegnate alle altre città dell'Europeo itinerante che hanno già provveduto a depositare le proprie garanzie. La situazione è intricata e il bivio arriva nel momento peggiore, con la curva dei contagi che fatica a piegarsi e i vaccini che arrivano a singhiozzo e sono al centro di polemiche feroci sulle priorità per categoria.
Eppure la sfida è di quelle da non perdere. Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ha scritto direttamente a Palazzo Chigi per provare a superare l'impasse. Quasi una supplica rivolta a Mario Draghi, chiedendo di "condividere" l'importanza dell'evento per l'Italia e ricordando come il 19 aprile sia un termine temporale ultimativo. Impegnandosi a garantire "il rigoroso rispetto delle prescrizioni che il Governo vorrà imporci, così come è stato per l'applicazione del protocollo sanitario" con cui il calcio italiano è riuscito a ripartire dopo il lockdown seppure con qualche basso in mezzo agli alti.
Ogni corsia preferenziale per i calciatori e per l'Europeo sarebbe (sarà) fonte di malesseri e gelosie. Però perdere l'Europeo mentre il resto del Vecchio Continente va avanti sarebbe dal punto di vista dell'immagine devastante. Un errore - altri ce ne sono stati, chiedete al settore del turismo - da non fare. Anche perché a metà giugno è molto alta la probabilità che il nostro Paese, esattamente come accaduto dodici mesi fa, sia diverso da quello che è oggi, con spiagge affollate, restrizioni abbassate e il tentativo di ripartire supportato anche da una campagna vaccinale comunque in stato avanzato.
Non avere oggi una visione di quello che accadrà tra due mesi sarebbe miope. Un'occasione persa per tutti, non solo per il calcio e la sua filiera sportiva ed economica. Utilizzando un termine calcistico, si tratterebbe di un autogol incassato per mancanza di coraggio e capacità di andare oltre. L'Europeo, insieme a tante altre cose, può e deve rappresentare la porta simbolica d'ingresso verso il ritorno alla normalità; basta avere il coraggio di dirlo e scriverlo entro il 19 aprile.