Tutti contro tutti: sulla riforma della Serie A il calcio italiano si spacca
Le grandi vogliono scendere da 20 a 18 squadre e flirtano con Gravina. Le medio-piccole resistono (per ora), ma lo scontro rischia di sabotare il percorso di modernizzazione di un settore in grave difficoltà economica
Alla resa dei conti hanno vinto i resistenti. Solo le big uscite allo scoperto e cioè Juventus, Inter, Milan e Roma, hanno votato per tagliare la Serie A del futuro da 20 a 18 squadre. Le altre 16 si sono compattate, anche quelle che sembrava potessero convergere sulla posizione espressa dalla minoranza 'pesante' (per fatturato e numero di tifosi) direttamente al presidente della Figc, Gabriele Gravina. Un blitz che ha causato non pochi mal di pancia in seno alla Lega Serie A e che ha spinto al conteggio. E' finita sedici a quattro, dunque nulla di fatto almeno per ora.
Il prodotto della spaccatura è che difficilmente nelle prossime settimane i vertici del calcio italiano si confronteranno costruttivamente sui piani di riforma per uscire dalla crisi ormai endemica. Ce ne sono due sul tavolo, anche se quello scritto negli uffici di via Rosellini dai presidenti della Serie A appare più una sorta di libro dei sogni contenendo qualche intuizione da sviluppare (salary cap), ma anche questioni non nella disponibilità di nessuno a Roma e Milano. Un esempio? Il Var a chiamata, competenza dell'IFAB, così come è la FIFA a determinare i calendari internazionale e la UEFA a scrivere le norme per l'accesso alle coppe europee.
Più articolato il piano di Gravina, che dà uno schiaffo alla Serie A inseguendo l'abolizione definitiva del Decreto Crescita con gli sgravi fiscali per i giocatori che vengono da fuori ma allo stesso tempo chiede risorse che vengano dal betting e, finalmente, strade veloci per la costruzione degli stadi. Oltre al taglio di 20 squadre della piramide del calcio professionistico in Italia, ormai sovradimensionato per i soldi in circolazione, come testimoniano i frequenti fallimenti a livello della Serie C.
La resa dei conti è stata accompagnata da accuse e difese. "Volevano farsi la Superleghina" ha chiosato Urbano Cairo, presidente del Torino. Modo elegante di sottolineare come i club medio e piccoli non abbiano apprezzato, per usare un eufemismo, il viaggio di Marotta e compagni presso Gravina. Il quale, da quanto risulta, avrebbe detto loro di apprezzare l'appoggio per la sforbiciata ma di avere bisogno di qualcosa di concreto come un'apertura corroborata anche dai numeri. Che non sono arrivati. Non i 14 necessari per approvare il taglio, ma nemmeno i 10 più uno che avrebbero sancito la spaccatura politica dentro la Lega.
Ora bisognerà attendere gli sviluppi. L'11 marzo rimane sempre convocata l'assemblea in cui Gravina vuole far passare tutto il suo pacchetto a partire dalla cancellazione del cosiddetto diritto d'intesa, quel meccanismo secondo il quale i cambiamenti all'interno di una lega possono diventare operativi solo con l'accordo della lega stessa. Non è detto che in questo momento il numero uno della Figc abbia consenso sufficiente, ma nemmeno che debba essere costretto a sconvocare l'appuntamento in agenda. Anche perché la fuga in avanti di Juventus, Inter, Milan e Roma ha lanciato un messaggio chiaro: se è vero che la Serie A reclama autonomia assoluta e maggiore peso politico, al suo interno c'è chi si è stufato di farsi condizionare dai veti dei piccolini. E necessita mani libere per restare in competizione con il resto d'Europa e del Mondo.
Nei prossimi round potrebbe diventare d'attualità anche l'attacco alle posizioni di società e dirigenti che sono usciti allo scoperto. Beppe Marotta, amministratore delegato dell'Inter e consigliere della Federcalcio per conto della Lega, ad esempio potrebbe essere chiamato a giustificarsi sul fatto di aver rappresentato se stesso e non gli altri club nell'incontro con Gravina. Difficile accetti di fare un passo indietro, possibile che gli venga chiesto e anche con modi spicci.
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