serie a decreto crescita cosa succede
Ansa
Calcio

Stop al Decreto Crescita: la politica italiana contro il calcio

La cancellazione dello sconto sugli ingaggi dei calciatori penalizzerà il nostro pallone impoverendolo e ricadendo prima di tutto sui settori giovanili.

Ci sono forse buone ragioni per considerare il Decreto Crescita applicato al calcio una misura iniqua, perché 'sconta' le tasse sui lavoratori (calciatori) che vengono da fuori, crea una disparità di trattamento che spesso penalizza gli italiani e, in ultima istanza, favorisce un mondo in cui girano cifre talvolta immorali e che ha modelli di gestione non raramente discutibili. Tutte argomentazioni che non hanno favorito i club della Serie A nel confronto (impari) con la politica che il Decreto Crescita nei suoi effetti sul pallone italiano ha deciso di cancellare. Creando un danno importante alle società che finirà per impoverire, non per rendere migliore, tutto il sistema: è quello che tutti e 20 i club della massima divisione hanno deciso di scrivere compatti al Governo sperando in un dietrofront in extremis che eviterebbe almeno la beffa dopo il danno dell'incertezza che già ha iniziato ad impattare su strategie e scelte in vista del calciomercato di gennaio e dei prossimi mesi.

La preoccupazione nei corridoi della Lega Serie A è grande perché grande sarà l'impatto della cancellazione dei benefici del Decreto Crescita che, in estrema sintesi, consente l'arrivo di calciatori dall'estero (anche Italiani se residenti fuori da almeno due anni) con un forte sconto sulle tasse per l'ingaggio percepito. Tradotto in soldoni: così la Serie A si è potuta permettere il rientro di Lukaku, l'arrivo di Mourinho e Thuram, la campagna acquisti del Milan e via dicendo, perché tutti ne hanno approfittato.

La tesi di chi è contro il Decreto Crescita concesso alle società di calcio è che i ricconi (e spendaccioni) del pallone non meritano trattamenti di favore e che così si penalizza la crescita degli italiani, visto che i dirigenti preferiscono orientarsi sugli stranieri che a parità di condizione consentono un sostanzioso risparmio. Togliendo il decreto, la situazione si riequilibrerebbe per magia.

E' così? Intanto va detto che certamente dal 2019 al 2023 le squadre della Serie A hanno recuperato un gap di competitività rispetto alla concorrenza europea. Lo testimoniano le tre finali su tre della scorsa stagione, seppure perse, o il primo posto parziale nel ranking Uefa di quella attuale con vista sul quinto posto in Champions League nell'agosto 2024. Più giocatori forti (anche se ne sono arrivati pure di scarsi), maggiori ricavi da premi Uefa e simili, più appeal in fase di contrattazione commerciale: diritti tv, seppure in un momento storico difficile, e sponsor.

Denaro attirato da fuori verso l'Italia e che ha puntellato un sistema in costante perdita dal quale, però, dipende anche una parte del sostentamento di tutta la piramide del calcio non professionistico e dello sport in generale. Abbassando la competitività l'unica strada sarà quella della decrescita. Poco felice.

I primi ad essere tagliati, sussurrano nemmeno troppo di nascosto i dirigenti della Serie A, saranno proprio gli investimenti sui giovani perché alla fine ogni club deve vendere un prodotto ed è più funzionale l'idea di un centravanti forte che un progetto pluriennale sul settore giovanile. Che poi, dal 2019 le nazionali italiane hanno vissuto un periodo d'oro: finale Mondiale Under 20, titoli europei Under 19 maschile e femminile, finali perse ai rigori per le Under 17 e, soprattutto, Europeo conquistato a Wembley nella fantastica estate del 2021. E' vero, è stato mancato anche l'accesso a Qatar 2022 ed è una colpa che rimane difficilmente emendabile.

E poi - altra riflessione condivisa a microfoni spenti - la sensazione amara che la politica italiano non ami il pallone se non quando è il momento di salire sul carro per celebrarne i successi, che attirano grande popolarità esattamente come il "dagli" al riccone viziato. Il Decreto Crescita potrà anche essere iniquo, ma oggi è l'unica misura a sostegno di una filiera industriale che vale in Italia oltre 5 miliardi di euro con un certo peso anche sul Pil nazionale.

Le proprietà farebbero anche a meno dello sconto fiscale se potessero avere, subito e non solo a parole, ricavi dalle scommesse su cui lucra solo lo Stato e non i diretti interessati, sostegno reale per la costruzione di stadi e infrastrutture e non il solito giochino dei veti incrociati o una qualsiasi delle forme di sostegno garantito, spesso a fondo perduto, ad altri settori della cultura e dell'intrattenimento. Perché questo è la football industry, anche in Italia, con in più un valore sociale. Solo che alla politica sembra non interessare salvo poi chiedersi perché altrove viaggiano a doppia velocità rispetto a noi.

TUTTE LE NOTIZIE DI CALCIO SU PANORAMA

I più letti

avatar-icon

Giovanni Capuano