Ecco quanto costa fermare il calcio
Migliaia di posti di lavoro persi, decine di squadre che falliranno, miliardi di euro bruciati tra diritti tv e sponsorizzazioni. Cifre, non demagogia - DIECI DOMANDE AL MINISTRO DELLO SPORT SPADAFORA
Lo scenario peggiore è descritto in una slide in quattro punti. Cosa accade al Sistema Calcio in caso di mancata ripartenza del campionato causa Coronavirus? La 'Grande Paura' dell'industria del pallone prende vita analizzando gli impatti permanenti di un lockdown superiore ai sei mesi con risultati che, secondo i vertici del pallone italiano, rischiano di cambiare volto a tutto il settore trascinandolo in un'era di decrescita ben poco felice. Fallimento di un elevato numero di imprese e aziende (2.700 società solo tra i dilettanti ma anche qualche club della Serie A in zona rischio), calo dell'occupazione, pubblico in fuga e con esso la quota di budget delle famiglie italiane destinate al pallone, meno investimenti pubblicitari delle aziende e crollo del valore patrimoniale delle aziende.
Una cura della povertà che porterebbe il calcio italiano lontano dalle locomotive d'Europa alla vigilia della rivoluzione dei format e dei calendari, passaggio storico in cui si stabiliranno gerarchie e rapporti di forza per i prossimi anni. Tradotto in numeri, una sorta di pre-fallimento per un comparto che garantisce una produzione da 5 miliardi di euro a stagione con impatto allargato sul Pil oltre i 10 miliardi e che tiene in piedi con i suoi ricavi tutto lo sport italiano, attaccato alla mammella della Serie A a dispetto del disprezzo cui cui molti protagonisti ne parlano.
A RISCHIO 46.055 POSTI DI LAVORO
Mentre il dibattito pubblico si concentra su vizi e privilegi di pochi milionari, la realtà racconta uno scenario in cui il lockdown senza prospettiva del calcio italiano brucerà in sei mesi 46.055 posti di lavoro e oltre 4 miliardi di euro di redditi per le famiglie che direttamente o indirettamente ruotano intorno al sistema calcio. Un mondo stimato oggi da Openeconomics in 121.737 persone, 10 miliardi di impatto sul Pil (lo 0,58%) e 3,1 miliardi di tasse generate che, con lo stop all'attività, crollerebbero di oltre un terzo riducendo il contributo allo Stato di oltre un miliardo.
Soldi che il Governo dovrà impegnarsi a tirare fuori sottraendoli ad altre emergenze per evitare il collasso dello sport italiano e sostenere gli addetti del settore, altro tema che rischia di incendiare il dibattito perché non sarà semplice immaginare un piano di aiuti per il calcio (e non solo) dopo averlo affossato evocando l'impossibilità etica di concedergli di ricominciare a lavorare quasi fosse un privilegio.
TUTTI I 'NO' DELLA POLITICA AL CALCIO
Del resto fin qui dai palazzi della politica romana sono arrivati solo dinieghi. Nessuna delle proposte pensate per ridurre l'impatto della crisi e portate al tavolo nelle settimana dell'emergenza, ha raccolto una risposta positiva o anche solo un'apertura concreta. Nulla a proposito del prelievo dell'1% sulla raccolta delle scommesse (il calcio da solo vale 10,4 miliardi con gettito erariale di 148 milioni di euro), strada sbarrata alla richiesta di liberalizzare per due anni le sponsorizzazioni dal betting e zero alla voce sgravi fiscali, interventi per garantire la liquidità e revisione della Legge Melandri sui diritti tv.
Anzi, il grande paradosso è che il fautore della decrescita del mondo del calcio - ovvero il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora - è anche il teorizzatore delle partite da trasmettere in chiaro, ignorando l'esistenza di una legge che lo vieta (e che in linea teorica potrebbe solo lui stesso superare) e del legittimo interesse di tutti i protagonisti della vicenda, dai broadcaster alla stessa Serie A. Dall'8 marzo, ultimo giorno in cui il pallone è rotolato su un prato verde in Italia, sono ormai passati quasi due mesi, sprecati inseguendo parole (tante), video comunicati su Facebook (quotidiani) e fatti (inesistenti).
PERCHE' IL CALCIO VALE PIU' DEGLI ALTRI SPORT
Nell'ottica un po' demagogica dell'uno vale uno è stato fatto passare all'opinione pubblica che una qualsiasi palestra, scuola di ginnastica o danza, piscina privata o altro del comparto aziende sportive abbia lo stesso peso del sistema calcio professionistico. Che la Serie A possa tornare a giocare solo se il protocollo di sicurezza è applicabile a scendere fino ai dilettanti, che un club da 600 milioni di euro di fatturato possa essere tenuto insieme a un'associazione territoriale che muove poche migliaia di euro all'anno.
Non è così,ovviamente, ma i numeri fanno poco presa sull'opinione pubblica ormai assuefatta agli slogan della politica. I numeri dicono che i 99 club del calcio professionistico italiano da soli generano 3,8 miliardi di euro di fatturato e garantiscono - da soli - il 71,5% della contribuzione fiscale complessiva di tutto il comparto aziende dello sport. Che significa 1,3 miliardi all'anno e 12,6 dal 2005 a oggi a fronte di una restituzione di fondi pubblici attraverso contributi del Coni che si è fermata a 782 milioni. Sedici volte in meno. Quindi no, uno non vale uno. E l'idea che l'attività dell'atelier della Serie A (per quando mal governato spesso per colpa propria) debba essere legata a doppio filo a quella della bottega di periferia è un ragionamento che non trova alcuna base in fondamentali che il Governo dovrebbe conoscere bene.
SENZA SERIE A IN FUMO QUASI UN MILIARDI DI EURO
Se ancora non fossero chiari i contorni dell'abisso, eccoli scritti nero su bianco nel documento spedito ormai da settimane all'esecutivo. Nello scenario più drastico (stagione 2019-2020 dichiarata conclusa) il sistema calcio conterebbe perdite per quasi 900 milioni di euro considerando anche la certa guerra legale della Serie A per incassare da Sky, Dazn e IMG (detentori dei diritti tv) l'ultima rata ed evitare la richiesta di restituzione di parte di quelle precedenti.
La sola Serie A vedrebbe andare in fumo 215 milioni di euro di ricavi da sponsor e attività commerciali e 98 da stadio per restare alle stime certificabili. Perché poi si torna allo scenario da incubo, quello col timore dei libri in tribunale. La decrescita ben poco felice impatterebbe, ad esempio, sui valori di mercato delle rose rendendo un'ipotesi irreale quella di riuscire a sistemare i bilanci col ricorso alle plusvalenze. Parliamo di una leva da 800 milioni di euro utilizzata da big e provinciali per dare ossigeno ai propri bilanci. Con l'Italia terra di conquista per il resto d'Europa, soprattutto chi riparte, il calcio post-Coronavirus rischia di trasformarsi in discount aperto a tutti.