Genio futurista, arazzo di Giacomo Balla
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I capolavori di Balla nella collezione Biagiotti

La stilista apre in esclusiva per “Panorama” le porte della sua grande raccolta di opere del futurista italiano. Dipinti, abiti, disegni e oggetti che sono contesi dai musei di mezzo mondo. E hanno molto da insegnare ai creativi di oggi e domani.

C’è un punto in Italia dove moda e arte si fanno avanguardia e futuro. È un luogo preciso che si deve cercare nel Comune di Guidonia Montecelio, in provincia di Roma, nel castello di Marco Simone, un elegante e sobrio maniero edificato nel XI secolo al crocicchio fra la strada Palombarese e la frazione di Setteville Nord. È lì, a meno di mezz’ora d’auto dalla Capitale, che la signora italiana della moda, Laura Biagiotti, custodisce il proprio tesoro d’ispirazione poetica: la grande collezione del genio futurista Giacomo Balla (1871-1958), capolavori e oggetti che da lì si muovono incessantemente verso i musei di mezzo mondo, e che fin dagli anni Ottanta informano la filosofia creativa della stilista.

«Mi pareva proprio di averlo conosciuto di persona, Giacomo Balla» dice Laura Biagiotti, aprendo in esclusiva per Panorama le stanze che raccolgono disegni, bozzetti, abiti, dipinti. «Conoscevo il Maestro dai miei studi classici, dalle spinte di una curiosità per il futurismo» spiega. «Ma la vera scintilla si accese nel 1982, quando mi imbattei in una piccola galleria d’arte nel centro di Roma. C’erano opere di Balla e diversi pezzi delle figlie Luce ed Elica, che poi conobbi personalmente. Fu un innamoramento. Con mio marito, Gianni Cigna, decidemmo di comprare gran parte delle opere. Nacque così il primo nucleo di una collezione che dopo la morte di mio marito, scomparso nel 1996, è diventata la Fondazione Biagiotti-Cigna, e conta oggi 160 pezzi».

Con opere straordinarie, come il Genio futurista, per esempio, la più grande mai realizzata da Giacomo Balla, ora esposta eccezionalmente all’Expo di Milano, nella sala di rappresentanza di Palazzo Italia. «Balla l’aveva dipinta per l’Expo di Parigi del 1925. Mi divertiva pensare che 90 anni dopo sarebbe tornata in un’Esposizione universale». Nessun invito dal Comune di Milano, però: «È stata una mia iniziativa». Puro mecenatismo e spirito di condivisione «perché se non si mettono in comune le opere, il collezionismo può diventare un atto di vero egoismo».

Le opere della Fondazione, pur chiusa al pubblico, aperta soltanto su richiesta di studiosi, non si negano agli occhi del mondo. Sono circa 500 le volte che questi pezzi, negli ultimi 18 anni, si sono mossi dal castello alla volta di musei e istituzioni. La grande mostra sul futurismo che si è tenuta al Guggenheim di New York lo scorso anno (600 mila visitatori, un record per il museo americano) ospitava per esempio molte delle opere Biagiotti-Cigna. Altre sono reduci dal Palazzo Fortuny di Venezia, dove sono state esposte nella rassegna dedicata alla marchesa Casati, grande amica del pittore. «E poi c’è il Gilet futurista, realizzato nel 1924, che è ormai una specie di Madonna pellegrina, non sta mai in queste stanze, è sempre in viaggio. Ora è al Museé d’Orsay di Parigi per la mostra Dolce vita, dedicata proprio all’arte e alla moda italiana».

Giacomo Balla e la moda, appunto. L’obiettivo dell’artista era quello di rendere l’oggetto artistico «mobile e vivo», in una concreta comunicazione tra arte e vita. In questo senso intendeva la «ricostruzione futurista dell’universo». L’arte avrebbe dovuto sconfinare in ogni ambito della quotidianità, abiti compresi. Difficile allora non pensare a un nesso con le realizzazioni di Laura Biagiotti. «Ho trovato degli input non soltanto estetici» precisa la stilista. «Ho declinato varie collezioni alla “Ballmoda”. Ma l’eredità di questo genio l’ho intesa in termini di metodo. Mi piace l’idea rivoluzionaria che Balla ha portato nell’abito da uomo. Per esempio, il cosiddetto “modificante”: un piccolo oggetto che si applicava al noioso vestito maschile e che doveva dare un guizzo di ottimismo, buon umore, nuova curiosità».

Energizzante: così doveva essere la moda secondo Giacomo Balla, è anche questa un’indicazione di metodo? «Non solo: è anche la quintessenza del made in Italy. Noi italiani siamo amati per i vestiti, ma soprattutto per la capacità di trasmettere un modello di buon vivere. La moda è la punta dell’iceberg, la spia di un mondo più ampio, uno dei primi comportamenti che sono in grado di migliorare la vita».

Gli esempi di questo spirito sfilano alle pareti. È qui, nella collezione Biagiotti-Cigna, di fianco ai tanti quadri astratti e figurativi, la più ricca documentazione di progetti e realizzazioni di Balla per un guardaroba futurista. Fabio Benzi, curatore scientifico della fondazione, illustra a Panorama le opere che travalicano il microcosmo pittorico e invadono le cornici, fino a trasbordare nell’arredo e negli oggetti d’uso quotidiano. Ci sono gli utensili, i pennelli, le cornici, le suppellettili che l’artista realizzava da sé. Ci sono i bozzetti per gli abiti che riecheggiano nei motivi geometrici dei dipinti. E c’è il ve­stito futurista vero e proprio, che doveva essere «dinamico, semplice e comodo».

«Balla prova la rivoluzione dell’abito su se stesso» dice Biagiotti. «Realizza vestiti anche per le figlie (pure questi nella raccolta, ndr). E fonda un vero atelier, anche se composto di sole quattro persone: la moglie, le due figlie ed egli stesso. Un laboratorio intimo e poetico, dove si produceva con molte difficoltà e pochi mezzi, ma che fu una rivoluzione nell’arte applicata. Nel design italiano degli anni Sessanta ritroviamo lo stesso spirito che Balla esprimeva già nel 1913, in anticipo anche sulle avanguardie storiche».

Ma che cosa prova Laura Biagiotti passeggiando per queste stanze? «Una grande consolazione. L’arte è stata sempre per me un elemento spirituale e psicologico di conforto. Ed è anche un contraltare a un mestiere impegnativo come il mio, dove c’è sempre una fuga verso il futuro. Studiare l’opera di Balla invece ti porta alla consapevolezza che il futuro c’è già stato. Molte intuizioni che noi attribuiamo alla creatività contemporanea, in realtà, erano già arrivate 100 anni fa. E tutto ciò mi sembra molto rassicurante». Rassicurante? «Sì, perché ci ricorda che l’innovazione non risiede nella novità, nella provocazione, nell’inconsueto. L’innovzione è un fatto di metodo. E il metodo Balla mi sembra non soltanto attuale, ma anche insuperato». Il futurista Giacomo Balla guarda ancora al futuro, insomma? «Sì. E noi dobbiamo guardare a lui. Ha ancora moltissimo da insegnare: ai creativi di oggi e alle generazioni di domani».

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Antonio Carnevale