Chiamami col tuo nome: perché Luca Guadagnino è piaciuto agli americani
Film più estetico che passionale, ha sedotto l'Academy e vinto l'Oscar per la migliore sceneggiatura. Ecco le ragioni del successo di un regista italiano più amato all'estero che in patria
Estate 1983, luminosa di colori estatici e sospesi. Nel Nord Italia, nei dintorni di Crema, in campagne nostalgiche che ben ammaliano gli ammericani, si svela piano una storia d'amore gay, estetica e vintage, che ha catturato l'Academy degli Oscar: Chiamami col tuo nome (Call me by your name) di Luca Guadagnino è la gradita sorpresa italiana tra le opere di maestri riconosciuti e premiati come Steven Spielberg e Christopher Nolan.
Cast e produzione internazionali (anche italiana), lingua originale inglese, Chiamami col tuo nome (dal 25 gennaio al cinema) si è guadagnato quattro nomination, tra cui quella più ambita come miglior film (ha vinto poi la statutetta come migliore sceneggiatura non originale per James Ivory che ha adattato il romanzo di André Aciman). Era dal 1998 con La vita è bella che un film italiano non entrava tra i candidati a miglior film; allora poi Benigni vinse l'Oscar come miglior film straniero.
Sul sito che raccoglie recensioni per lo più anglofone Rotten Tomatoes, Chiamami col tuo nome sfiora l'en plein dei consensi con il 96% di giudizi positivi. Ma come mai questo racconto di formazione seducente alla vista, fuggevole al cuore, ha conquistato l'America?
Perché Luca Guadagnino piace agli americani
Più noto e apprezzato all'estero che in Italia, Luca Guadagnino è l'espressione del classico detto "nemo propheta in patria".
Chiamami col tuo nome ha avuto un percorso finora strabiliante per un film italiano di questi tempi: quattro nomination anche ai Golden Globe e inserimento tra i dieci migliori film del 2017 dal National Board of Review of Motion Pictures.
Ecco le parole rapite con cui viene presentato Oltreoceano. "La regia di Luca Guadagnino ricorda la sensibilità di Bertolucci al suo meglio, la favolosa fotografia di Sayombhu Mukdeeprom cattura in modo estatico la ricca opera d'arte che è l'Italia d'estate, gli attori sono uno schianto": scrive il New York Observer.
"I film di Luca Guadagnino non li guardi soltanto, ti abbandoni a essi", si legge sul New York Times.
Metti un po' di panorami campestri italici evocativi, tanti spunti artistici e intellettuali tra reperti archeologici e citazioni di Montaigne ed Eraclito, immagini che solleticano la vista stuzzicando ora l'erotismo ora la contemplazione, ed ecco che il gusto statunitense, poco abituato alla bellezza, viene rapito.
L'effetto fascino risiede soprattutto nella fotografia incantata del thailandese Mukdeeprom, collaboratore anche del connazionale Apichatpong Weerasethakul, l'autore del faticosissimo Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti Palma d'oro al Festival di Cannes.
L'ambientazione è la provincia di Crema, dove Guadagnino abita: l'ha preferita alla Liguria per contenere i costi di un film che il regista siciliano all'inizio doveva solo produrre, essendo impegnato nel remake di Suspiria di Dario Argento. Ma poi, quando sono stati accantonati nomi come Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek e Sam Taylor-Johnson, Guadagnino ha accettato la sfida di girare due film nello stesso anno. E, si sa, le vie del caso amano stupire: Chiamami col tuo nome ora lo porterà tra gli ospiti d'onore del Dolby Theatre di Los Angeles il 4 marzo 2018.
Luca Guadagnino, più amato all'estero che in Italia
46 anni, più conosciuto e apprezzato all'estero che in Italia, palermitano che ha passato l'infanzia in Etiopia, terra materna, Guadagnino ha saputo osare. Come quando decenni or sono ha avvicinato Tilda Swinton, presente a Roma per un evento, per chiederle di partecipare a un suo cortometraggio. È stato l'inizio di una bellissima amicizia, viatico di collaborazioni internazionali importanti.
Quel corto non si realizzò, ma l'attrice è stata poi presenza costante del percorso registico di Guadagnino, dal suo debutto con The Protagonists, fischiato alla Mostra di Venezia nel 1999, passando per Io sono l'amore (2009), film elegante di frustrazioni e implosioni borghesi, forse il suo lavoro migliore, che è stato il trampolino del successo. Sempre più oltreconfine che in Italia.
Anche per A Bigger Splash la sorte è stata simile: presentato in concorso a Venezia, qui ha raccolto gli umori controversi della critica italiana, e non a torto. Ispirato a La piscina del 1969 di Jacques Deray, è ambientato a Pantelleria, dove un gruppo di ricchi stranieri nervosi si diletta. L'Italia? È bellissima nelle immagini stordenti, ma i suoi abitanti sono disegnati in maniera quasi macchiettistica, con un finale orticante che mette il dito in vizi italiani a uso e consumo esterofilo. Anche in questo caso i gradimenti sono arrivati soprattutto fuori dall'Italia.
Non a caso, questa volta, Chiamami col tuo nome è stato distribuito prima negli Stati Uniti e nel Regno Unito (a fine 2017) che in Italia. Abituato a vedere i suoi film snobbati dal pubblico italiano (oltre che dalla critica), ora Guadagnino prova il percorso inverso: tramite la consacrazione internazionale, destare l'interesse dei connazionali. E il profumo di Oscar probabilmente gli darà ragione.
Seguendo la rotta precedente, anche Chiamani col tuo nome sembra un prodotto pensato più per lo sguardo internazionale, americano soprattutto, che per il palato italiano. Colti e ricchi statunitensi, la famiglia Perlman, si sollazzano in una villa della campagna cremese: il giovane diciassettenne Elio, un abbacinante Timothée Chalamet, arrangia al pianoforte componimenti alla Bach o alla Busoni, il ventiquattrenne Oliver (il più contenuto big Jim Armie Hammer) passa da Stendhal a Heidegger con disinvoltura, sciorinando supreme capacità filologiche. Intanto la fauna autoctona pensa a cucinare o a trastullarsi al bar, fa discorsi isterici sulla politica italiana anni '80, quando ancora esistevano Pci e Psi e Bettino Craxi era argomento di discussione, partecipa da distante all'idillio romantico americano.
Con ritmo languido emerge lentamente l'amore tra Elio e Oliver, sotto il sole compiaciuto di un'estate più da guardare che da vivere. Tra Elio e Oliver, l'avvicinarsi di sensibilità e corpi è pigro e serafico, colpisce più l'estetica che l'animo. Una passione silenziosa e misteriosa, che trova il suo momento più alto non nelle scene tra i due ragazzi, dibattuti in un amore proibito anni '80.
Il momento del vero amore, quando finalmente la sostanza va sopra la forma, è nel discorso finale del padre di Elio: al signor Perlman (Michael Stuhlbarg) è affidato il monologo che ogni figlio - gay e non - vorrebbe sentire. Il colpo di coda che scuote. Lì si concentra la linfa di un film intellettualizzato, che all'empatia preferisce la bellezza esteriore. E che - la speranza è sempre e comunque quella - magari proprio per questo ammalierà l'Academy.