A Ciambra: i dolori (e i furti) del giovane Pio – La recensione
Viaggio nel cuore di una piccola comunità rom alla periferia di Gioia Tauro. Tra derive ambientali, povertà e umanità quasi un ritorno al “cinema-verità”
La famiglia Amato è al completo. Tra baracche, carcasse di automobili, detriti d’ogni risma, copertoni, rame rubato, povertà e umanità densa. La specialità, diciamo così, della casa, è il furto, specie quello d’auto e incluso perfino quello di energia elettrica, pubblica o privata, come càpita. È l’habitat nel quale s’infila A Ciambra (in sala dal 31 agosto, durata 118’), opera seconda di Jonas Carpignano – autore italoamericano 33enne salito repentinamente alla ribalta nel 2015 con Mediterranea – sviluppata su un corto dal medesimo titolo realizzato in precedenza (2014) e con le dinamiche stesse di Mediterranea a sua volta elaborato sull’altro cortometraggio A Chjána del 2011. Questo per dire che il cinema di Carpignano è il non casuale sviluppo di una ricerca sul campo, attenta e prolungata, in ambito di marginalità, di emigrazione e ovviamente di disagio sociale.
Quelle diverse opinioni su “Africani” e “Italiani”
Ciambra è il nome assunto da una ridotta comunità rom nei sobborghi di Gioia Tauro, zona metropolitana di Reggio Calabria. Vive più o meno come s’è detto: alla giornata e nella logica degli espedienti. Il film – che nella produzione esecutiva annovera la firma prestigiosa di Martin Scorsese - ne rappresenta le dinamiche e i rapporti interni attraverso gli Amato e soprattutto nella figura di Pio, forse quattordicenne, comunque abbastanza “piccolo” da non poter partecipare alle cose dei “grandi”, cioè dei fratelli che si esibiscono nei furti d’automobili, disprezzano la comunità nera della zona (gli africani, li chiamano) e fanno affari con gli italiani, che immaginiamo rappresentanti periferici e un po’ scalcagnati della ndrangheta.
L’amicizia col protagonista di “Mediterranea”
L’amicizia che A Pio, invece, quegli “italiani” non stanno troppo simpatici, ritrovano i proprietari della macchine rubate e glie le fanno restituire dietro miseri riscatti smezzati coi fratelli Amato a beneficio del loro reddito familiare. Per lui, piuttosto, è degno d’amicizia Ayiva (Koudous Seihon, emigrato dal Burkina Faso e già protagonista di Mediterranea) col quale intreccia un legame che, pure non allontanandolo dall’illegalità e dalla sordidezza ambientale, sembra aprirgli un diverso schema di confronto col mondo. Diventando, in buona parte, l’elemento qualificante della storia.
La morte del “nonno” uno spartiacque temporale
Famiglia Amato, dunque, al completo. Padre, madre, figli e nipoti. Un gruppo coeso ridente, strillante, bevente e fumante (sigarette per tutti, anche bambini), spesso decimato dalle irruzioni dei Carabinieri a suon di manette. C’è anche il nonno. Già, lui, a rappresentare un po’ lo spartiacque fra passato e presente (“io sono nato su una carretto - racconta a Pio - una volta eravamo sempre per strada, liberi, senza padroni, non dovevamo niente a nessuno e adesso invece siamo qua, siamo noi contro il mondo”) e a lasciare al nipote una specie di messaggio definitivo. Prima di morire. In una transizione simbolica oltre la quale anche il ragazzino, meritandoselo con l’iniziazione forzata al suo primo approccio sessuale con una prostituta e, in generale , con l’aspirazione ad un più evoluto standard di malvivenza rispetto ai furti di valigie sui treni nei quali s’è perfezionato, entra di diritto nell’età adulta.
La recitazione? Come nella vita di ogni giorno
Il suo futuro? È scritto nel vento. E soprattutto in quel tessuto umano che, avendolo praticato, vissuto e condiviso a lungo fin quasi a farne parte, Carpignano conosce benissimo. Tanto da rappresentarlo dal vero, con la propensione a quel cinéma-verité e al direct cinema (addirittura al cinema etnografico) d’una volta che lo induce ad utilizzare nel film i personaggi reali, Pio, Iolanda, Damiano Amato e tutti gli altri (meno il “nonno”, scomparso davvero tempo addietro dunque reinterpretato, ma con le sue stesse parole) lasciandoli recitare come nella vita, nel modo il più abituale possibile.
Senza fare, con questo, del naturalismo, contagiando anzi certe attitudini neorealistiche con metodi di ripresa quasi di cronaca, macchina sempre in spalla, movimenti concitati e irregolari, spesso pedinando alla nuca il giovane protagonista. Salvo abbandonarsi brevemente, come in un lampo, a bizzarri echi felliniani nella comparsa notturna e pseudovisionaria di un cavallo che lentamente incede tra le case del borgo illuminando la fantasia del ragazzo.
Dialetto stretto, sottotitoli e qualche prolissità
Lo stile è asciutto e volutamente “sporco”, riverberato in un rigore idiomatico che chiama i sottotitoli in soccorso di un dialetto inevitabilmente serratissimo e ai più non accessibile. Il limite, se c’è, resta nella persistenza di alcune inquadrature e nella ripetitività dell’azione che sviluppano la vicenda oltre i margini narrativi più congeniali agli stessi modi con i quali questa viene rappresentata. Nel senso che alla sobrietà, alla stringatezza e all’essenzialità dell’ispirazione corrisponde piuttosto una curiosa tendenza al ristagno o, ancora, ad una prolissità a volte enfatica. Il regista osserva e non propone il suo giudizio “contaminante”, pure correndo qualche volta il rischio di santificare alcune logiche di negatività figlie di una cultura altra e di una obiettiva disperazione. Realtà amarissima, puntualmente registrata. Come il mancato e forse impossibile riscatto di Pio, per il quale diventare adulto significa semplicemente compiere dei furti “da grande”. E magari tradire un amico del Burkina Faso.
Per saperne di più
https://www.dropbox.com/s/14wgeqql5azcd5q/TRL_A_CIAMBRA_IT_MIX_20_YouTube%20HD%201080p.mp4?dl=
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