Un padre uccide il figlio in un «incontro protetto». Per la Corte di Strasburgo nessuno è colpevole
Paradossale sentenza della Cedu sul caso del piccolo Federico Barkat, nel 2009 ucciso dal padre in una casa d'accoglienza: la struttura non avrebbe alcuna responsabilità
Anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, da sempre considerata l'ultima istanza giurisdizionale contro le ingiustizie nazionali, può essere lenta e deludente. A sei anni dalla presentazione del ricorso per la straziante uccisione di Federico Barakat, un bimbo di appena 8 anni che nel 2009 fu ucciso dal padre durante quello che avrebbe dovuto essere un «incontro protetto» in una struttura di accoglienza, a San Donato Milanese, i giudici di Strasburgo si sono pronunciati sostenendo non ci siano responsabili.
La Corte europea ha quindi avallato la tesi del giudice italiano, secondo cui gli incontri protetti avevano il ruolo di «sostegno allo sviluppo educativo e psicologico del bambino», e non anche quello della salvaguardia del suo diritto all'integrità fisica e psichica e, più in generale, del diritto di protezione di un minore. Gli incontri, che oltre a essere definiti «protetti» avrebbero dovuto essere tali, erano stati disposti dal Tribunale dei minori di Milano nonostante le numerose denunce presentate per violenza contro il padre di Federico dalla sua mamma, Antonella Penati, e malgrado il rifiuto del bambino, che non voleva incontrare il padre violento. Il tribunale, considerando la madre «alienante», aveva invece preferito tutelare il diritto alla «bigenitorialità», ossia il diritto del padre violento di vedere il figlio.
La sentenza dei giudici di Strasburgo conferma il paradosso italiano, che in passato ha mandato assolti tutti i responsabili della struttura, indagati per la morte cruenta di Federico. Dalla sentenza emerge quindi che non c'è alcun reato se un bambino, affidato allo Stato, viene ucciso dal padre che so presenta con un'arma da fuoco e con un coltello nel luogo che, per sua stessa definizione, dovrebbe preservare chi è vulnerabile.
«La Corte di Strasburgo» commenta Federico Sinicato, avvocato di Antonella Penati «non ha voluto affrontare il tema vero del ricorso, e non ha voluto rispondere alla domanda molto semplice che avevamo posto: lo Stato deve garantire al minore il diritto alla protezione da un genitore aggressivo e inaffidabile? Una risposta di buon senso alla quale chiunque risponderebbe in modo affermativo».
La sentenza sembra dire che quando l'autorità pubblica prende in consegna un minore è possibile che nessuno si occuperà della sua sicurezza e della sua vita, perché è importante solo controllare che l'effettuazione dell'incontro sia formalmente regolare. «La Corte europea dei diritti dell'uomo» aggiunge l'avvocato «ci sta dicendo che è possibile considerare normale che un uomo più volte denunciato, armato e drogato, possa incontrare il figlio senza alcuna verifica sulle sue condizioni di salute psicologica». E anche senza essere perquisito.
Nel caso di Antonella Penati e di suo figlio Federico, in effetti, è sconcertante non si sia dato alcun peso alle 17 denunce presentate dalla madre. Se soltanto fossero state considerate correttamente, e se solo si fosse valutata adeguatamente l'opportunità degli incontri, Federico non sarebbe stato ucciso a coltellate. Sarebbe bastato dotare la struttura di strumenti di sicurezza in grado di garantire l'effettiva incolumità del minore, ma sarebbe bastata la presenza fisica di un operatore durante l'incontro: forse la violenza avrebbe comunque prevalso, ma almeno lo Stato avrebbe fatto qualcosa per tutelare il diritto alla vita di Federico. Antonella Penati, che dopo la morte del figlio ha creato la Onlus Federico nel cuore e si batte perché mai più possa accadere quello che è capitato a lei e a suo figlio, annuncia che «la ricerca della giustizia per Federico non si ferma e proseguirà con la presentazione di un ricorso alla Grande camera della Corte di Strasburgo».