Così lo smartphone ha cambiato la nostra vita. E continuerà a farlo
Nel giugno del 2007, dieci anni fa, l'iPhone debuttava nei negozi. Oggi i telefoni intelligenti sono compagni di vita insostituibili. Ed è solo l'inizio
di Guido Castellano e Marco Morello
Ci sono invenzioni come la radio, la televisione, il computer e internet che hanno trasformato radicalmente le nostre abitudini, i modi di comunicare, imparare e divertirsi. Sono pietre miliari del cammino umano, motori instancabili dell’evoluzione sociale e culturale. Pochi, però, ne conoscono la paternità, sanno chi li ha inventati e accesi per la prima volta. Discorso opposto vale per l’ultimo anello della catena, per il più acrobatico salto in avanti del progresso tecnologico: lo smartphone. Chiedete e vi sarà detto, da tutti o quasi: Steve Jobs, il fondatore della Apple. È stato lui a pensare, volere e svelare questo gadget portentoso, allergico ai tasti e dallo schermo quasi magico, che si controlla con le dita e ha reso il vecchio telefonino un versatile pc in miniatura sempre connesso al web, in grado di riprodurre video e musica. Di fagocitare, fondere in uno spazio piccolo i dispositivi rivoluzionari delle generazioni precedenti.
Lo smartphone è bussola del mondo, risposta (spesso contraddittoria) a ogni domanda digitata ovunque su Google, estensione del corpo in grado di farci trovare un taxi e l’amore, giocare e pagare, scattare e condividere, comprare, commentare e litigare, immergerci con gli occhi e la mente in un altrove sterminato. Di ammanettarci a una nuova schiavitù frutto delle sue tante virtù: lo maneggiamo 2.617 volte al giorno (dati Dscout), più di un qualsiasi amuleto, utensile, feticcio; lo usiamo fino a quattro ore complessive non consecutive ogni 24 ore, spesso frazioni di minuti, attimi di secondi; nell’87 dei casi, lo accendiamo di notte almeno una volta a settimana. Preoccupati di perderci qualcosa, cruciale o marginale poco importa. Ansiosi di leggere l’ultima notifica, di rimanere dentro la «telepatia elettronica» (la definizione è di Edward Snowden): il flusso travolgente di pensieri altrui espressi da faccine e selfie, messaggi scritti e vocali, videochiamate e aggiornamenti sui social network.
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Eppure, questo compagno di vita, questo scrigno della nostra presenza digitale, fino a 10 anni fa nemmeno esisteva. Era il 29 giugno del 2007 quando l’iPhone debuttò nei negozi. Aveva 4 giga di memoria e una fotocamera da 2 megapixel: prestazioni esigue, capienze risibili per gli standard odierni. Sembra trascorsa un’era e forse, vista la corsa surriscaldata dell’hi-tech, è davvero così. Da allora di smartphone ne sono stati venduti 7,1 miliardi di pezzi, quanto la popolazione del pianeta, 1,5 miliardi solo nel 2016 (fonte Gartner): 1,2 miliardi sono invece i melafonini passati dagli scaffali alle nostre tasche dalle origini a oggi, che hanno trasformato la società di Cupertino in una compagnia con una capitalizzazione in borsa da record, superiore agli 800 miliardi di dollari. Otto volte più del 2007, come ricorda il Wall Street Journal.
In Italia, secondo la società di ricerca ComScore, i cellulari con la connettività e l’intelligenza di serie sono usati da 33 milioni di persone: il 19,2 per cento esibiscono il marchio Apple, il 71,6 per cento hanno un cuore Android. Ovvero il sistema operativo targato Google, lanciato nel 2008 dal motore di ricerca proprio per arginare lo tsunami della mela e adottato dai suoi principali rivali, in prima fila gli asiatici Samsung e Huawei, che a fine 2016 occupavano il primo e il terzo posto del mercato tricolore, rispettivamente con una quota del 40 e 12 per cento.
Gli smartphone rappresentano la quintessenza di una dinamica che è ricorrente e ricercata in Silicon Valley: sono «disruptive». Dirompenti, nel senso distruttivo e progressivo del termine. Hanno fatto danni smodati, strozzando per esempio il mercato delle macchine fotografiche: gli analisti dell’americana InfoTrends stimano che entro il prossimo dicembre l’85 per cento delle immagini globali saranno generate dai telefonini, quasi il 5 per cento dai tablet, pronte per essere pubblicate su Instagram e dintorni. Peggio è andata ai lettori musicali e al formato mp3, dichiarato ufficialmente defunto, perché la musica si ascolta in streaming su YouTube, Spotify (30 milioni di canzoni a disposizione) ed epigoni. Anche gli sms sono stati assassinati, consegnando a WhatsApp e Facebook Messenger (oltre un miliardo di utenti attivi per ciascuno) il compito di farci comunicare nelle maniere più disparate. Infine, ne è uscito azzoppato il settore dei computer da scrivania e portatili, che circa due lustri dopo l’iPhone vendono 55 milioni di pezzi in meno l’anno: 219 milioni nel 2016, 264 milioni nel 2007. Epoca in cui il mondo viaggiava ancora sulle ali della visione di Bill Gates, il fondatore della Microsoft, la regina dei pc e dell’universo hi-tech. Finché, con una decina di minuti di discorso, Steve Jobs si prese l’intera scena: «Ogni tanto» disse dal palco a San Francisco «arriva un prodotto in grado di cambiare tutto. Abbiamo reinventato il telefono. Siamo cinque anni avanti agli altri».
«Pensate come potrebbe cambiare l’esperienza di fruizione dei contenuti se uno schermo grande come quello di un tablet sia capace di arrotolarsi e diventare poco più grande di una penna da mettere nel taschino. Vi assicuro che non è fantascienza»
È stata questa capacità di muoversi in anticipo sulla storia la vera arma vincente di Apple, che per almeno due anni non ha avuto concorrenti seri. Un vantaggio strategico favorito e ingigantito da un errore di valutazione, da un clamoroso autogol di Steve Ballmer, allora amministratore delegato della società di Windows. In un’intervista rilasciata al quotidiano statunitense Usa Today, disse: «Non c’è alcuna possibilità che l’iPhone possa ottenere una quota di mercato significativa». Ma nei primi tre mesi dall’uscita, i dispositivi con la mela raggiunsero i 1,4 milioni di pezzi venduti in un trimestre e il magazine Time li nominò prodotti dell’anno. Il resto è storia, come il tentativo di Microsoft di recuperare goffamente terreno comprando Nokia per 5,4 miliardi di euro nel 2013, come la scomparsa di BlackBerry e il pensionamento della tastiera fisica, gli schermi che diventano sempre più grandi e definiti, i cuori di chip veloci e performanti.
C’è un aneddoto divertente che ricorda come uno smartphone odierno abbia più potere di calcolo di tutti i computer usati dalla Nasa per sbarcare sulla luna. Bestioni da 3,5 milioni di dollari l’uno, grandi quanto un’automobile. L’estrema miniaturizzazione e il galoppo della tecnologia è la chiave di volta per abilitare ed estendere l’ecosistema delle applicazioni, i programmi che fanno funzionare i telefonini, monopolizzando l’87 per cento del tempo che trascorriamo on line in mobilità. È l’affermazione definitiva, la consacrazione di un’economia parallela: le app, solo sponda Apple, a fine 2016 avevano generato 1,2 milioni di posti di lavoro nel Vecchio Continente, distribuendo dal 2008 quasi 10 miliardi di euro di guadagni. Di fatto, c’è un software per qualsiasi esigenza: trovare l’anima gemella o un’avventura, in base alle preferenze sessuali; saltare la fila alla posta, prenotare le vacanze. Un elenco anche lunghissimo risulterebbe troppo parziale. Se in molti Paesi, dice ComScore, nei settori del banking e del turismo l’esperienza da mobile ha sopravanzato quella da pc, in altri è già accaduto per il consumo dei video.
Ce n’è abbastanza per generare una dipendenza. «Ci sentiamo nudi senza telefonino» ha dovuto ammettere Larry Page, fondatore di Google e artefice dell’acquisizione di Android, che in origine era una compagnia autonoma. È un sintomo della nomofobia, patologia ormai sdoganata e riconosciuta, che si manifesta con ansia e stress, attacchi di panico nei casi estremi, quando scatta la paura di non essere raggiungibili, senza credito o con la batteria in rosso. Impossibile stimare il numero degli infetti, facile riconoscersi nei sintomi: «Ne siamo così ossessionati da non vedere nulla intorno a noi» rimarca Martin Lindstrom, autore bestseller, esperto di nuovi media. Lo smartphone sta rovinando il piacere di godersi il mondo in diretta, un concerto o un paesaggio, perché si preferisce fotografarlo e postarlo anziché viverlo. Può ucciderci: secondo l’Aci è tra le principali cause di morte sulle strade italiane; rovinarci: gli affidiamo tutti i dati personali, nelle mani sbagliate la nostra identità ne esce compromessa, ridotta a brandelli. Di sicuro, potenziali minacce degli hacker a parte, ci spia costantemente. Sa sempre dove siamo, ci conosce a memoria, tenta di venderci prodotti tagliati su misura sui nostri gusti e la nostra posizione.
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Siamo dunque ben oltre il piano della vastità dei contenuti, il cellulare intelligente è un’irrinunciabile abitudine. Oramai maneggiamo con destrezza il touch, alfabeto di gesti e movimenti, linguaggio ecumenico quanto la parola e la scrittura. Un rito in perenne evoluzione: da pochi giorni, con Apple Pay, possiamo saldare il conto nei negozi tricolore facendoci riconoscere dallo smartphone tramite l’impronta digitale. Un veicolo valido altrettanto per pensionare le vecchie password alfanumeriche, puntando in parallelo sulla scansione dell’iride e sul riconoscimento facciale dalla fotocamera del telefono. Nuove modalità d’interazione, che al centro mettono anche la voce: Siri ha la metà degli anni dell’iPhone, è stata lanciata nell’ottobre del 2011, solo adesso la sua capacità di comprensione supera i suoi proverbiali, irritanti equivoci. Ma è grazie al continuo supporto dell’intelligenza artificiale, che arriverà a sorprenderci, rispondendo con coerenza a un ventaglio immenso di domande, conversando con noi con disinvoltura. Lo stesso intendono fare Google Assistant, Cortana di Microsoft e Alexa di Amazon, cancellando l’intermediazione del display, funzionando come instancabili concierge virtuali al ritmo delle parole anziché dei tocchi. Mentre oltre guarda Facebook, che lo scorso aprile nel corso di F8, l’incontro annuale dedicato agli sviluppatori, ha mostrato un modo per interagire con il social network tramite il cervello: dettando testi semplicemente pensandoli, senza muovere un dito o pronunciare una vocale. «Sembra impossibile, ma ci siamo vicini» ha scandito dal palco Regina Dugan, vicepresidente del lato ingegneristico della piattaforma ed ex direttore della Darpa, l’agenzia che sviluppa i progetti di ricerca d’avanguardia del dipartimento della difesa americano, il luogo dove sono state messe le basi di internet.
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Alla prossima generazione degli smartphone, alle loro funzioni di bordo, lavorano alcuni tra i migliori cervelli del pianeta. Puntando a traguardi oggi impensabili, come conferma a PanoramaCarlo Barlocco, presidente di Samsung Electronics Italia, l’azienda rivale numero uno della mela morsicata, in grado di vendere 44 mila telefoni nel mondo ogni ora: «Pensate» spiega Barlocco «come potrebbe cambiare l’esperienza di fruizione dei contenuti se uno schermo grande come quello di un tablet sia capace di arrotolarsi e diventare poco più grande di una penna da mettere nel taschino. Vi assicuro che non è fantascienza». Il display, che così tanto ci rapisce e ci distrae, ne uscirà marginalizzato, accartocciato su se stesso, stimolato da parole e pensiero. Più avanti ancora, il cellulare potrebbe finire condensato in un auricolare, strizzato in un chip sottopelle: protesi invisibile del nostro corpo, non più solo sua figurata estensione tascabile. Il numero uno della Apple Tim Cook, d’altronde, non vede i primi dieci anni dell’iPhone come un traguardo, ma come un punto di partenza. «Abbiamo appena cominciato» ha detto poche settimane fa. «Il meglio deve ancora arrivare».