Beni culturali: un privato fa rinascere Ercolano, il pubblico fa morire Pompei
Nel primo caso, grazie all'intervento di un magnate, è stato possibile restaurare l'intera area archeologica. Risultato che non si riesce a ottenere nel secondo sito, benché i fondi ci siano, la soprintendenza sia la stessa e gli sponsor potrebbero trovarsi
Immaginate due appartamenti di uno stesso edificio semidistrutto da un terremoto. C’è lo stesso proprietario, lo stesso amministratore, ci sono pure un sacco di soldi per la ristrutturazione. Eppure uno viene rimesso a nuovo ed è bellissimo, l’altro è preda dell’incuria, non si riescono nemmeno a spendere i fondi arrivati e, più passa il tempo, più i crolli e le devastazioni aumentano.
Pur nel paradosso della semplificazione, il destino di due gioielli mondiali dei beni culturali italiani sembra proprio questo. Ercolano e Pompei, distrutte insieme la notte del 24 agosto del 79 d.C., riportate alla luce dagli scavi prima dei Borboni e poi di grandi archeologi italiani, da Giuseppe Fiorelli ad Amedeo Maiuri, distano 17 chilometri ma sembrano luoghi di continenti diversi. Tutti e due siti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Ma a Ercolano, dopo anni di incuria che la faceva apparire in tutto e per tutto simile alla sua più famosa e più grande vicina, nel 2000 è successo un piccolo miracolo. O meglio, è successa una cosa che accade da decenni in tantissimi altri posti del mondo: un ricco signore è arrivato e ha detto: "Ho un po’ di soldi da destinare alla conservazione e al restauro di un’opera d’arte, amo l’Italia ma non mi fido della burocrazia italiana, per cui vorrei che la gestione dei fondi e dei lavori venisse fatta da gente di mia fiducia". Il miracolo è consistito nel fatto che David W. Packard (erede della dinastia della multinazionale dell’informatica Hewlett-Packard), i suoi soldi, i suoi tecnici e i suoi metodi sono andati d’accordo con la macchina pubblica (ministero e soprintendenza) che gestisce il sito di Ercolano. Packard si è appoggiato alla British school, l’Accademia britannica di archeologia, storia e belle arti, che ha fornito il management e il personale tecnico, fra cui moltissimi italiani. Insieme con la soprintendenza è stata decisa la strategia di interventi.
"Fino al 2004 era tutto in abbandono anche qui, come a Pompei" ricorda Domenico Carmando, archeologo assunto da Packard e British school per il progetto Hercolaneum. "La prima cosa che abbiamo fatto è stata ripristinare l’intera rete fognaria originale per permettere alle acque di defluire e lasciare le strade e le antiche domus senza umidità". Quello dello smaltimento delle acque, che è il grande problema di Pompei e causa di molti dei crolli che si sono verificati negli ultimi anni, è stato dunque il primo intervento a Ercolano, propedeutico al restauro esteso su tutta l’area e non focalizzato come a Pompei sulle singole domus. Dice Jane Thompson, project manager: "Ercolano è stata distrutta in un modo molto diverso da Pompei. Lì sono caduti lapilli e cenere che hanno soffocato la città in una nube. Qui il flusso di magma alto 20 metri è arrivato improvviso e ha completamente sigillato la città, motivo per cui abbiamo ritrovato intatti legno, stoffa, corda, cibi, tutto mantenuto per totale assenza di ossigeno. Per questo, e per le dimensioni, conservare a Pompei è più difficile".
A Ercolano, dopo le fogne, hanno cominciato la sistematica copertura delle domus, il ripristino e la pulizia di strade e marciapiedi, il restauro degli affreschi, il consolidamento delle mura. I reperti più preziosi (anche una imbarcazione lasciata capovolta sulla spiaggia) sono stati portati al coperto ed esposti al pubblico. Altri sono ancora nei depositi in attesa di trovare un nuovo spazio adeguato.
Un poco alla volta, ma in modo sistematico, la città ha ritrovato il suo splendore. David Packard ha messo fino a oggi 16 milioni di euro e altrettanti sono quelli resi disponibili dallo Stato. Il miracolo è stata la sinergia tra i tecnici di Packard e British school e quelli della soprintendenza, è stata la flessibilità (è questa la parola più pronunciata tra Ercolano, Pompei e la Soprintendenza di Napoli) che ha consentito al privato (sì, certo, controllato, sostenuto, monitorato dal pubblico) di fare. Normalmente gli sponsor adottano un monumento, a Ercolano hanno deciso invece di salvare l’intera città dal degrado verso cui stava inesorabilmente andando.
Dice ancora Jane Thompson: "Il problema grande della struttura pubblica è che loro sono bravissimi nell’individuare quello che c’è da fare ma poi non riescono a farlo perché sono intrappolati in un sistema che non funziona. Il nostro intervento privato invece è veloce, flessibile, operativo, quindi qui a Ercolano abbiamo trovato un’ottima intesa con il pubblico riuscendo sempre a lavorare insieme".
Ma perché se il ministero è uno, se il soprintendente è lo stesso, se certamente Pompei è uno dei siti archeologici più famosi al mondo e quindi attira sponsor privati, perché ciò che riesce a Ercolano non si può fare a 17 chilometri di distanza? Alla domanda risponde Teresa Elena Cinquantaquattro, soprintendente da due anni dell’area archeologica che comprende le due città inghiottite dal Vesuvio: "La struttura è la stessa ma c’è un disallineamento fra Pompei ed Ercolano semplicemente perché a Ercolano ci sono le condizioni perché l’efficacia della soprintendenza possa giungere a buon fine. Lo sponsor mette risorse e, cosa decisamente rara, non viene richiesto in cambio un uso commerciale dell’immagine. La cosa più interessante è che è stata messa in piedi dal privato, una équipe di tecnici, di archeologi, di informatici, e c’è una programmazione condivisa. Loro assicurano il mantenimento di questa struttura di supporto, la soprintendenza assicura con proprie risorse una parte degli interventi. Questo meccanismo ha sopperito alla mancanza di ricambio di personale che l’amministrazione ha subito nel tempo e alla mancanza di flessibilità amministrativa. Si pensi che, anche solo per chiedere una consulenza, dobbiamo domandare l’autorizzazione alla Corte dei conti. L’Hercolaneum conservation project agisce con molti meno vincoli".
Ma su Pompei non si sono fatti avanti sponsor come a Ercolano? "A parte una dichiarazione di intenti dei francesi, poi ritirata, a Pompei non abbiamo visto nessuno". Ma se arrivasse un Packard? "Lo accoglieremmo a braccia aperte".
Intanto Pompei affonda. Non sono solo i crolli, che pure tra grandi e piccoli compilano solo dal 2010 una lunga lista: Casa dei gladiatori (6 novembre 2010), muro a Porta romana (22 ottobre 2011), muretto nel giardino della Domus del moralista (30 novembre 2011), serie di cedimenti nei muretti degli scavi (bottega in via Stabiana e Casa del piccolo lupanare, 1° dicembre 2011), distacchi di intonaci presso la Domus della Venere in conchiglia (27 febbraio 2012), colonna e pergolato della Domus di Loreio Tiburtino (14 marzo 2012), cedimento presso il Tempio di Giove (22 marzo 2012), cedimento di un tratto del muro perimetrale (20 aprile 2012) e cedimento di un muro in vicolo di Modesto (29 novembre 2012). L’Unesco ha organizzato il 17 novembre un convegno per capire come e soprattutto quando potranno essere spesi gli ingenti fondi europei disponibili (105 milioni di euro). Altrimenti sarebbe anche stata ventilata l’ipotesi di togliere il patrocinio alle rovine più visitate in Italia dopo il Colosseo, eventualità che per l’Italia sarebbe un clamoroso autogol. "Ogni anno affluiscono alle casse di Pompei circa 25 milioni di euro, che risulta drammaticamente difficile spendere" lamentava il senatore Riccardo Villari, correlatore in commissione Beni culturali, lo scorso giugno.
Ma c’è tanto altro: dai problemi di sicurezza per i turisti minacciati da un assalto delle guide turistiche (ne fece le spese perfino l’ambasciatore cinese, attorno al quale si scatenò una rissa per la scelta della guida) a quelli sindacali, con scioperi e agitazioni selvagge che lasciano i turisti ore in fila davanti alle biglietterie. C’è una biglietteria nuova e bellissima in vetro e acciaio costata 3,7 milioni di euro mai entrata in funzione. C’è il problema fuori dai cancelli dei tanti, troppi, venditori ambulanti. C’è il problema di un sito con oltre 2,3 milioni di visitatori l’anno (a volte 12 mila in un solo giorno) dove non si accettano carte di credito. E poi ci sono indagini e inchieste in corso: dal ritrovamento di amianto nell’area degli scavi a tante irregolarità nella concessione di appalti, alla pressione della criminalità organizzata per la spartizione della torta.
Problemi grandi e piccoli, legati sì alla estensione del sito (50 ettari di scavi contro i 4 di Ercolano) ma anche alla cattiva gestione e alla mancanza di volontà di mettere insieme lo Stato, gli enti locali e gli eventuali privati intorno a un tavolo. Se a Ercolano ce l’hanno fatta, una ragione ci sarà. Magari, prima che crolli tutto (secondo lo studio dell’Osservatorio del patrimonio culturale, "l’80 per cento dell’area archeologica di Pompei è compromessa o a rischio deterioramento e distruzione") qualcuno al ministero si svegli e renda a Pompei quella flessibilità di cui Ercolano gode con magnifici effetti.