A Brescia l’arte apre le sue case
Una mostra del Cinquecento lombardo da collezioni private diventa il pretesto per un itinerario fra capolavori nascosti.
Era città di grandi e straordinarie collezioni, Brescia: Averoldi, Fenaroli, Avogadro e Lechi sono i nomi più celebri. Oggi quelle collezioni storiche, tranne la Lechi che è diventata un bellissimo museo a Montichiari, sono state disperse e i loro tesori costituiscono corposi nuclei di tanti importanti musei in Italia e in Europa. Nel frattempo però nuovi appassionati si sono affacciati alla ribalta, riuscendo a costituire raccolte che se non hanno i fasti di quelle antiche, presentano opere a volte di qualità sorprendente. È quel che il grande pubblico può scoprire, visitando la mostra che ha debuttato il primo marzo a Palazzo Martinengo a Brescia e che raduna un centinaio di pezzi, tutti di provenienza da raccolte private bresciane. I nomi dei protagonisti sono annunciati nel titolo: Moretto, Romanino, Savoldo, Ceruti. I primi tre (la Venere nella foto grande è di Moretto) furono protagonisti di quella straordinaria stagione che fu il Cinquecento bresciano, il quarto, invece, visse due secoli dopo e fu reso celebre dalle sue grandi tele dedicate alla rappresentazione dei poveri e dei marginali.
"La pittura come registrazione del visibile... Un’arte concreta fatta di fiducia terrena e scevra di ogni allucinamento". Così Roberto Longhi definiva la pittura bresciana, riscattandola da un declassamento subito per i silenzi di Vasari. Una pittura che è stato il terreno fertile su cui si innestò la rivoluzione di Caravaggio. È infatti l’adesione al reale il filo conduttore che lega le opere esposte: in questo svettano le quattro tele di Ceruti, capaci di restituirci volti e gesti di un’umanità popolare, senza mai ridurli a rappresentazione di genere. Certo i volti più indimenticabili di questa mostra.