Carlo D'Amicis, 'Quando eravamo prede' - La recensione
La prima volta che un cacciatore uccide un esemplare della sua stessa specie si corrompe per sempre l'invisibile legame di una comunità. Ecco un romanzo che non somiglia a nessun altro: allegorico ma nello stesso tempo molto fisico, anzi bestiale.
Devo tornare con la memoria alla Fattoria degli animali di George Orwell per trovare un aggancio letterario alla società di animali antropomorfizzati (o viceversa: uomini regrediti ad animali) descritta in Quando eravamo prede di Carlo D'Amicis. Solo che qui l'allegoria è sfuggente. L'autore non allude all'inganno di una (di ogni?) rivoluzione da smascherare con la satira. Non c'è un prima né un dopo, non c'è un quando. Solo la Natura. La natura che, a un certo punto, ci abbandona.
Un'altra suggestione rimanda al Re Leonzio di Dino Buzzati: creature che potrebbero venire dal mondo delle fiabe popolano un bosco pre (o post) apocalittico. Sono tutti sterili tranne uno stallone in disarmo ma che è pur sempre l'unico antidoto all'estinzione. Nessuno è mai uscito dal Cerchio. Da qualche parte, oltre una Linea immaginaria, ci sono gli Altri. Cacciatori con le doppiette, si nutrono degli animali del bosco finché un giorno le prede spariscono. E i cacciatori diventano prede.
L'autore gioca con il concetto di identità immedesimandosi completamente nella comunità dei suoi protagonisti, sì che la precisione dei dettagli e la sottigliezza introspettiva finiscono per far apparire la storia coerente, addirittura grottescamente plausibile. "Eravamo l'arma e il bersaglio". Sono i quattro giovani del branco a spezzare l'aridità di una sopravvivenza che si trascina rancorosamente uguale a se stessa.
La voglia di conoscere, di capire, ribalta il campo. Improvvisamente è troppo tardi per fermare la corsa del dubbio. E se la Linea non esistesse? E se gli Altri non fossero migliori di noi? L'eresia porta con sé pensieri complessi come pudore, come padre e figlio, come famiglia, come Dio. Ma tutto si arresta sulle soglie del bosco squassato dai suoi roditori. Un presentimento oscuro annuncia lo squallore e la tristezza sconsolata della raggiunta conoscenza.
Del resto, come diceva Montaigne nei Saggi e come ben sanno i cacciatori, il vero scopo di ogni partita è l'inseguimento. Così è per la verità: noi siamo nati per cercarla, ma il possederla spetta a un potere più grande. Siamo noi le creature in cammino nella faggeta? Noi predatori prede o più spesso predoni, che passiamo il tempo a costruire muri o recinti per sentirci al sicuro ma abbiamo sempre in mente di varcare quel misterioso orizzonte che si sposta con noi?
Quando eravamo prede si conclude come aveva iniziato: con un raggelante vuoto di risposte. Un abbaglio che Alejandro Jodorowsky ha sintetizzato in questo splendido verso: "Fuggiamo in tutte le direzioni / A tutti ci insegue / la stessa luna".
Carlo D'Amicis
Quando eravamo prede
minimum fax
192 pp., 14 euro