Crisi economica, la ricchezza dei valori senza prezzo
La forbice tra ricchi e poveri si sta sempre più allargando. Per questo è meglio tornare ai beni fondamentali
François Hollande sta provando a tassare il reddito dei ricchi al 75 per cento. Gli indignati se la prendono con quell’1 per cento della popolazione mondiale a un tempo "colpevole" e vincitore della grande crisi. E mentre la politica italiana si arrovella sul senso della patrimoniale, il leader di Sel, Nichi Vendola, pensa semplicemente che i "superricchi dovrebbero andare al diavolo". La peggiore recessione dal dopoguerra fa crescere il risentimento intorno ai ricchi, ma alimenta anche riflessioni ambiziose sul ruolo del denaro e sull’idea stessa di ricchezza. Come fanno Robert ed Edward Skidelsky, padre economista e figlio filosofo che nel saggio Quanto è abbastanza (in uscita il 29 gennaio per la collana Mondadori Strade blu, 306 pagine, 17,50 euro) si interrogano sull’insaziabilità umana e sull’importanza di una "vita buona" al posto dell’accumulazione sfrenata.
Gli Skidelsky arrivano a sostenere che sia necessario ridurre la spinta a consumare e lavorare: si direbbe una follia in un momento in cui i governi di mezzo mondo si scervellano su come fare tornare la gente a spendere e creare occupazione. "Questo è il momento giusto per discutere su cosa significhi crescita economica" si difende Robert Skidelsky, grande esperto di John Maynard Keynes, dalle cui visioni il libro prende origine. "La nostra macchina per fare soldi ha enormi difetti. Farne di più non ci garantisce una vita soddisfacente. Non si tratta di ritornare allo stato di natura, rinunciando a tutto, ma di riflettere sul senso della ricchezza". Keynes aveva immaginato che l’accumulazione non potesse essere una spinta permanente, che gli uomini prima o poi sarebbero stati in grado di provvedere alle proprie necessità lavorando molto meno. E avendo quindi più tempo libero. Skidelsky ritiene sia possibile, a patto di concentrarsi sulla vita buona, pieni di beni fondamentali, come salute, sicurezza, rispetto, armonia con la natura, amicizia. Valori senza un prezzo, che racchiudono un’altra idea di patrimonio e anche un altro ruolo dello stato.
Ma la realtà dice che l’accumulazione ha rallentato stando al Global wealth report del Credit Suisse: la banca svizzera ha calcolato che fra metà 2011 e metà 2012 la ricchezza delle famiglie è calata globalmente del 5,2 per cento rispetto all’anno precedente, arrivando a quota 223 mila miliardi di dollari (circa 167 mila miliardi di euro). A segnare il passo è stata soprattutto la Vecchia Europa, in particolare l’Italia, che ha registrato una perdita patrimoniale pari a 286 miliardi. La metà della popolazione mondiale possiede appena l’1 per cento dellla ricchezza, ma meno dell’1 per cento (cioè 29 milioni di persone) ne detiene il 40 per cento. Una piramide che all’apice vede sempre meno italiani. "Nel 2012 per la prima volta è diminuita la quota di nuova ricchezza prodotta, nonostante l’andamento positivo dei mercati finanziari" sottolinea Bruno Zanaboni, segretario generale dell’Associazione italiana private banking, branca degli investimenti che si occupa di patrimoni finanziari superiori ai 500 mila euro e che in Italia coinvolge oltre 600 mila famiglie. "La crisi ha influito in modo irreversibile sulla percezione del valore del patrimonio e sui rischi a cui le famiglie si sentono esposte".
Se l’incertezza preoccupa i paperoni, colpisce duro soprattutto alla base della piramide. "Questa crisi ha lacerato il Paese, allargando ancora di più la forbice tra le fasce più ricche e quelle più povere" sentenzia Giovanni Vecchi, professore di economia all’Università di Tor Vergata, autore del volumeIn ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi(Il Mulino, 495 pagine, 40 euro). "L’Italia si è liberata dalla povertà di fine Ottocento, e non è un risultato banale. A differenza di altri paesi è riuscita anche a crescere in modo equo fino agli inizi degli anni Novanta, quando le distanze tra i redditi si sono ampliate, riportando indietro l’orologio di trent’anni". Oggi, suggeriscono le stime, in Italia ci sono oltre 4 milioni di poveri, per quanto anche contarli sia difficile, visto che non esiste una soglia ufficiale di povertà. E con il risparmio in picchiata le famiglie che ondeggiano pericolosamente appena sopra il baratro sono in aumento.
Come mostra un rapporto della Banca d’Italia, da sempre gli italiani attribuiscono al tema dell’uguaglianza sociale un grande valore, ritenendola perfino più rilevante della libertà. Da sempre dimostrano anche una certa sfiducia nel fatto che l’impegno personale, piuttosto che la buona sorte e le relazioni familiari, siano determinanti nel successo economico. E a guardare i numeri si ottiene qualche conferma: tra il 1965 e il 2010 il rapporto tra ricchezza e pil nel nostro Paese è praticamente raddoppiato. "Questo" spiega Vecchi "significa che la ricchezza, che arriva dal passato, si eredita, è diventata più importante del reddito e quindi della capacità di conquistarsi un posto migliore grazie al lavoro o all’impresa".
Comunque siano costruite, le fortune in Italia generano quanto meno diffidenza. "Il pensiero cattolico e quello comunista le considerano qualcosa di indebito piuttosto che la ricompensa per un duro e onesto lavoro come accade nei paesi di etica protestante" ricorda Gabriella Calvi Parisetti, vicepresidente dell’istituto Gfk Eurisko, che da anni ha un osservatorio sui mercati finanziari. "Un’immagine che è peggiorata con l’affermazione delle ricchezze finanziarie nel 2000, quando più famiglie si sono avvicinate alle borse e si sono create e perse anche somme vertiginose. Il ridimensionamento violento che stiamo vivendo ci dimostra che la ricetta del nostro boom fondato su svalutazione, debito pubblico, evasione ci aveva regalato una falsa idea di ricchezza". Un’ubriacatura, un sogno secondo Mauro Magatti, docente di sociologia della globalizzazione alla Cattolica: "Il tabù dell’ostentazione è caduto anche per molti cattolici vent’anni fa, quando si è affermato in Italia il modello culturale che equipara la ricchezza al consumo". Una trappola, per il filosofo Silvano Petrosino autore di Soggettività e denaro. Logica di un inganno (Jaca Book, 80 pagine, 9 euro): "L’uomo è costituito di bisogni, ma è abitato dal desiderio, dall’inquietudine che cerca di colmare con il possesso, e il consumismo è diventato un’idolatria per le masse a basso costo, ma gli idoli non reggono" argomenta. "L’iPad colma il vuoto per un po’, ma non per sempre. Dobbiamo renderci conto che si può vivere bene anche senza iPad o settimana bianca: non è alimentando i bisogni indotti, la fabbrica di idoli, che si rilancia l’economia". La priorità? "Aggiustare l’economia" ammette Robert Skidelsky. "Tuttavia è tempo di pensare a come vogliamo che sia il nostro mondo dopo l’emergenza".