Quanto Guicciardini c'è in questi leader?
Da cinque secoli Machiavelli ispira i nostri politici. Ma più forte è l'impronta del suo coevo gemello diverso
Si parla molto, in questi giorni, di messer Niccolò Machiavelli, assai poco del suo eterno deuteragonista Francesco Guicciardini. La concomitanza fra il quinto centenario del Principe (1513) e le elezioni ha rinfocolato l’attenzione sul pensiero del segretario fiorentino, magari ridotto in pillole: come quella celebre frase "il fine giustifica i mezzi" che cerchereste invano nella sua opera, non diversamente dall'"elementare, Watson!" nelle avventure di Sherlock Holmes. Ma se c’è mai stato uno scrittore per il quale il discorso pseudomachiavellico sui mezzi e sui fini è intimamente connaturato alla riflessione storica è proprio il semidimenticato Guicciardini, l’autore dei Ricordi e della Storia d’Italia, rammentato solamente per quel culto del "particulare", riduttivamente inteso come un farsi i fatti propri, che Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana ribollente di spiriti risorgimentali, marchiò come segno del vuoto ideale tipico della corruttela italica: "Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l’individuo. Ciascuno per sé, verso e contro tutti".
De Sanctis, si sa, esagerava: gli faceva velo la passione politica, che trasferiva dalla neonata patria del suo tempo all’Italia guicciardiniana, sconvolta dal sacco di Roma del 1527 peggio di quella attuale per via dello spread e della crisi economica. In realtà Guicciardini era un pessimista condito di buonsenso borghese e toscano, il cui scetticismo si nutriva di "discrezione" e di connaturato senso del limite: non troppo diverso, in fondo, da un Mario Monti prima della salita in politica. Mentre Machiavelli, se per certi estremismi ideologici potrebbe far pensare a Beppe Grillo, per l’irriducibile vitalità e la visione così ottimisticamente proiettata al futuro ha qualcosa di Silvio Berlusconi. Non a caso il suo competitor Romano Prodi, che lo sconfisse per due volte alle elezioni, inclinava più al sornione senso della misura guicciardiniano che alle doti della "golpe" e del "lione", simboli araldici d’astuzia e di forza, additati da Machiavelli al suo Principe.
Col nostro eterno spirito gregario ci piace identificarci nell’Italia tutta pugnali e veleni, stereotipo del machiavellismo caro agli anglosassoni. E non mancano i motivi per farlo. Ma sarebbe anche ora di riscoprire la prosaica e disillusa realpolitik di Francesco Guicciardini. Il "gemello diverso" di Machiavelli può restituirci un’immagine meno romantica ma più veritiera di noi stessi e del nostro Paese.