Il tocco morboso del perturbante: la fuga di Nietzsche e di Freud dalle carezze del bordello
Un amico di Nietzsche di cui lui non aveva molta stima («Duessen è stato qui un paio di giorni. Lasciando dietro di sé una eco stranamente sgradevole», scrisse a Rohde il 2 agosto 1872) a un certo punto dei …Leggi tutto
Un amico di Nietzsche di cui lui non aveva molta stima («Duessen è stato qui un paio di giorni. Lasciando dietro di sé una eco stranamente sgradevole», scrisse a Rohde il 2 agosto 1872) a un certo punto dei suoi Ricordi si sente in dovere di riferirci qualcosa. È l’unico, tra tutti quelli che l’hanno conosciuto, a fare accenno a una cosa del genere: l’altro riferimento, sfilacciato dai passaggi di bocca e di documenti, risale a un’uscita di Nietzsche stesso, quando già in preda alla deragione alla domanda di un medico di Basilea rispose «Signorsì, due volte, nel 1866».
Deussen scrive:
«non troppo volentieri riporto qui una storia che merita di essere strappata all’oblio (…).
Un giorno, nel febbraio del 1865, Nietzsche si è recato da solo a Colonia, e si era fatto guidare da un fattorino a visitare i monumenti. Alla fine lo invitò a portarlo in un ristorante. Questi invece lo conduce in una casa malfamata. “All’improvviso”, così mi raccontò Nietzsche il giorno dopo, “mi sono visto circondato da una mezza dozzina di figure in tulle e lustrini, che mi fissavano piene di attese. Per un po’ sono rimasto senza parole. Poi per istinto mi sono diretto verso il pianoforte, come fosse l’unica cosa dotata di anima in quella compagnia, e ho accennato alcuni accordi. Questi mi sciolsero dallo sbalordimento e me la svignai”. [Alcuni traducono “e io ottenni la mia libertà”]».
«Da questo episodio e da tutto ciò che so di Nietzsche – aggiunge Deussen – sono portato a credere che a lui ben si applicano le parole di una biografia di Platone: mulierem nunquam attigit [non toccò mai una donna]».
L’episodio, raggelante, quasi svolto in sogno, ha tratti di quasi adesiva sovrapponibilità con un aneddoto personale che Freud decise di inserire in un saggio del 1919 per farci comprendere come il senso di «ripetizione» e di «impotenza» possano generare l’esperienza del «perturbante».
In un caldo pomeriggio d’estate, Freud vaga senza meta per le strade deserte di una «città di provincia italiana». A un certo punto, per caso, si ritrova in un quartiere malfamato: «alle finestre delle casette non si vedono che donne imbellettate», in atteggiamenti inequivocabili. Freud affretta il passo, deciso ad abbandonare quel luogo, ma dopo un breve percorso, nel labirinto della cittadina, si imbatte nella stessa strada peccaminosa. Ma ormai è stato notato, e tutte lo guardano. Quegli occhi scintillanti nel sole italiano (allegoria del peccato e della promiscuità istintuale), lo spingono di nuovo a fuggire, ma si ritrova dopo breve nella medesima situazione. «A questo punto – dice Freud – mi colse un sentimento che non posso definire altro che perturbante».
L’apparizione delle donne alle finestre è rapida e agghiacciante: Freud ne accenna sbrigativamente, in mezza riga, lasciando trapelare una certa volontà di distanza, frutto della paura. Sembra che, più che di donne disponibili, parli di morte-in-vita, imbellettate e inanimate, che deve allontanare dicendone il meno possibile. Appena comprende che il quartiere in cui si trova è un bordello a cielo aperto, rifugge qualsiasi contatto, quasi in preda a un’ansia di contagio: le prostitute non gli suscitano nessuna emozione se non quella puramente cerebrale di indicargli, come pietre miliari o ramoscelli piegati in una strana forma, che è già passato da quella parte. Le puttane sono per lui, come fosse in un sogno, segnali di coazione, cartelli stradali dell’inconscio. Freud, viene da pensare, scappa perché non c’è nessun pianoforte nei paraggi.