Marco Magini, 'Come fossi solo' - La recensione
Nella settimana che precede la ricorrenza internazionale in memoria della Shoah, un libro coraggioso arriva a tener vivo il ricordo del più grande crimine compiuto in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale: la strage di Srebrenica, enclave musulmana vittima nel 1995 di un genocidio che coinvolse oltre diecimila civili.
Dirk, giovane casco blu olandese del contingente Onu; Romeo, giudice spagnolo del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia; Dražen, soldato riluttante e "mezzosangue" (serbo con radici croate, cittadino della Bosnia musulmana) coinvolto suo malgrado nella mattanza. Marco Magini racconta Srebrenica su un copione tripartito in Come fossi solo , sorprendente romanzo d'esordio finalista nel 2013 al Premio Calvino. Tre voci si intrecciano a comporre il mosaico di una Storia agghiacciante che invera l'antica profezia di Lev Tolstoj: mentre un tempo almeno si accusavano i tiranni dei delitti commessi, oggi "si commettono misfatti impossibili sotto i Neroni senza che se ne possa accusare alcuno" (Il regno di Dio è in voi). A meno che.
A meno che non si trovi un capro espiatorio. Unica testimonianza diretta della strage di Srebrenica, Dražen Erdemović fu l'unico membro del Decimo battaglione serbo processato dal tribunale penale. Venne condannato nel 1996 a dieci anni di reclusione, ridotti poi a cinque, con un "compromesso odioso" che continua a sollevare una polvere di maceranti interrogativi. Proprio nello scarto fra l'imputazione del giovane reo confesso (genocidio) e i "numeri" della condanna risiede l'ipocrisia propagandistica del conflitto, avallata dalle contraddizioni della comunità internazionale. La storia ufficiale di quel processo, dice il giudice Romeo Gonzalez, era stata scritta altrove.
I fatti e le azioni sussultano brutali e incalzanti in questo romanzo dalla prosa asciutta e lineare. Il racconto in soggettiva dei due soldati protagonisti è il segreto narrativo che permette a Magini di puntare il riflettore sugli abissi della barbarie interetnica e, contemporaneamente, sui turbamenti della psiche individuale aggrappata al disperato tentativo di conservare un briciolo di umanità. "Quel giorno Dio non era dappertutto": risuona fra queste pagine la potente metafora di Herta Muller, altra straordinaria interprete delle Bassure novecentesche. Le doglie nella polvere, lo stupro di un cadavere, lo sguardo di un bambino sul patibolo. Un'operazione di pulizia etnica è, anche letterariamente, roba per stomaci robusti.
Non a caso il battesimo della guerra è segnato, sia per il giovane casco blu olandese sia per il padre di famiglia serbo-croato, dal ricorso al meccanismo di difesa più drastico: la scissione del sé. Una sorta di ipnosi da sopravvivenza descritta magistralmente mezzo secolo fa da Mario Rigoni Stern nell'epopea della ritirata di Russia, Il sergente nella neve : "Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente... più niente mi faceva impressione, niente mi commuoveva". In Come fossi solo la similitudine agreste è affidata al soldato olandese Dirk: "Siamo nient'altro che spaventapasseri abbandonati in mezzo al campo, anche i corvi lo sanno e ci volteggiano intorno in attesa del momento giusto per colpire".
Da qualunque sponda la si guardi - i barbari, le vittime, le presunte forze di civilizzazione, fino ai presunti arbitri imparziali - la guerra è quella cosa che non ha vincitori ma solo una gran massa di vinti. Dirk, Romeo, Dražen. Potrebbe essere uno di loro il soldato ritratto di spalle sulla splendida copertina di questo libro. Un pianoforte in mezzo al nulla, sopravvissuto alla devastazione. L'attimo sospeso di una nota suonata, appunto, "come fossi solo". Ma forse conservare un briciolo di umanità laggiù era soltanto illusione.
Il conflitto nella ex Jugoslavia fu il prototipo di tante guerre che ancora oggi imperversano nel mondo. Il nemico non è lo straniero ma il tuo vicino di casa. Oppure: il tuo vicino di casa è lo straniero. Il nemico dentro se stessi. Il nemico sei tu. Davvero un padre pieno di rimorsi è sempre meglio che un padre nella fossa? A Srebrenica, conclude Magini, "l'unico modo per restare innocenti era morire".
Se il solo imputato di un processo per crimini contro l'umanità non è un fanatico ma il ragazzo che si arruolò per disperazione, possiamo ancora fare giustizia come esseri umani? Quel "briciolo di umanità" conservato da Dražen a prezzo della libertà pesa come un macigno sulla coscienza del giudice Romeo, che alla fine del processo ripercorre in solitudine il dramma delle coscienze costrette a rinunciare a un cammino di verità e giustizia. Siamo sicuri che una sentenza sia scevra da ogni condizionamento individuale-individualistico delle persone chiamate a giudicare? Chi siamo noi per assolvere e condannare?
A questi interrogativi risponde come un'eco il rovello filosofico, etico e politico di Hannah Arendt, ovvero una delle epocali riflessioni che il Novecento ci ha consegnato dolorosamente aperte: La banalità del male . Gerarca nazista e insignificante funzionario di morte tra i tanti, chi fu davvero Adolf Eichmann? Chi fu davvero Dražen Erdemović? Un uomo solo. Viene da rispondere con quest'unica certezza al manicheismo dei tribunali. Purtroppo per noi, come ha testimoniato mezzo secolo fa da Gerusalemme la Arendt nelle sue corrispondenze al processo Eichmann, il male non ha la faccia del Diavolo ma di uno qualunque dei dannati.
Insomma il Novecento di Auschwitz, Hiroshima e Srebrenica, altrimenti detto il secolo degli orrori, ha lasciato in eredità alle generazioni il compito di tramandare la memoria. Marco Magini aggiunge il suo prezioso tassello, nel solco di una tradizione illustre che in Italia ha raggiunto vette universali con narratori del calibro di Primo Levi, Rigoni Stern, Fenoglio, Pavese, Calvino. Per non uccidere il futuro.
Marco Magini
Come fossi solo
Giunti
218 pp., 14 euro