Mattia Preti: un maestro tra Caravaggio e Tarantino
In mostra alla Venaria Reale la pittura cinematografica del grande artista calabrese.
Fosse nato nel nostro tempo, Mattia Preti si sarebbe dato certamente al cinema. Sarebbe stato uno di quei registi da B movie che piacciono tanto a Quentin Tarantino e che godono di una popolarità superiore alla loro fama. Invece a Preti è toccato nascere esattamente 4 secoli fa, in una stagione e in un paese straordinariamente voraci d’immagini, ma in cui l’unica pellicola a diposizione era quella della pittura. Quel 1613 coincideva per di più con un frangente delicato: da 3 anni era morto Caravaggio e i tantissimi che si erano messi sulla sua scia avevano cominciato presto a prendersi un po’ troppe libertà. Preti, sin dal primo momento di consapevolezza, invece ha impostato il suo percorso, che sarebbe stato peraltro lunghissimo (morì nel 1699), sui binari della più sincera ortodossia al verbo caravaggesco. Come scrive Vittorio Sgarbi presentando la mostra organizzata per il quarto centenario a Venaria Reale (sino al 15 settembre, catalogo Silvana), Preti «è l’ultimo giapponese del caravaggismo» e ha vissuto l’arte «con una curiosità e una tensione prensile eccezionali, continuando a rubare dalle sue fonti per comporre però, sempre, pitture originali».
A Venaria Caravaggio è presente con un capolavoro giovanile come Il riposo nella fuga in Egitto della Galleria Pamphili, un’opera di meravigliosa dolcezza, anche se sono forse altre le opere da cui Mattia Preti ha succhiato l’alimento per la sua pittura. A lui è congeniale il Caravaggio dall’atmosfera inquieta e dagli scorci più drammatici e spigolosi. In una parola, quello più cinematografico. L’allestimento giustamente sobrio della Venaria Reale esalta la vocazione registica del Cavalier Calabrese: cavaliere perché era stato ammesso nell’Ordine di Malta su disposizione del grande Urbano VII nel 1642. In particolare sono le tele a grande formato orizzontale quelle che gli permettono di sviluppare a pieno respiro le sceneggiature dei suoi quadri. Preti ha una capacità innata di svolgere i suoi racconti, disseminandoli di particolari e indizi da cui restiamo catturati proprio come se assistessimo a un film.
Per di più a volte i soggetti sono talmente insoliti da sembrare quasi pagine di una stupefacente sceneggiatura. È il caso, per esempio, delle sue tele dedicate all’episodio della regina Tomiri che immerge la testa di Ciro in un otre di sangue; ma è anche il caso della Giuditta e Oloferne. Preti affronta il tema truce con molto senso dell’equilibrio e senza mai cedimento all’horror, come in fondo sarebbe stato facile. In lui prevale sempre il piacere della narrazione, la resa dei sentimenti, il gusto per i gesti e gli sguardi dei protagonisti delle sue tele. È bello da questo punto di vista un altro quadro dal soggetto raro, presente a Venaria, quello con l’episodio biblico di Labano che cerca gli idoli nel baule di Giacobbe.
Nella complessità del racconto, da vero regista, Mattia Preti si muove sempre con grande abilità e disinvoltura. E alla fine, come scrisse Roberto Longhi, nel saggio che proprio 100 anni fa consacrò l’artista calabrese, le sue opere sono «traboccanti di incertezze geniali, di errori più felici che una buona riuscita».