Museo della follia, un museo così a Matera è una cosa da pazzi
Lo ha voluto Vittorio Sgarbi per celebrare arte e follia, una «casa di cura» per chi la visita.
Aveva ragione lo psichiatra, anzi l’antipsichiatra Franco Basaglia, ispiratore di una legge, la 180, che chiuse qualche lager, quando sosteneva che «si scrivono un sacco di banalità e idiozie circa l’equivalenza tra arte e follia». Si genera molta retorica da quelle parti e forse la cosa migliore in merito l’ha detta Salvador Dalí: «L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo».
La frase getta un po’ di luce là dove c’è un sacco di buio, e dove ogni volta ci attendono «casi» celebri (Pontormo, Vincent Van Gogh suicidato dalla società, Antonin Artaud, Antonio Ligabue e così via) ma non sufficienti a stabilire una regola. Insomma non tutti gli artisti sono folli né muoiono da giovani. Però possiamo sostenere che sono loro, con i poeti, i più adatti a formulare un «discorso sulla follia», a darle visibilità e parola consapevole.
L’unico intellettuale rimastoci in grado di potersi fregiare del titolo (alla Dalí, cioè senza esserlo) è Vittorio Sgarbi, ma il suo tipo di pazzia è così inquietantemente epidemico che non soltanto a lui ma a una schiera di suoi giovani collaboratori attivi alla fondazione che gli è intitolata dobbiamo rendere merito per questa impresa, la creazione a Matera, negli spazi del Convicinio S. Antonio, del Museo della follia (dal 18 agosto). In continuità con il Museo della mafia, ideato da Sgarbi a Salemi, tra i Sassi della città lucana si rappresenta ciò che è difficile a dirsi, che è refrattario a qualsiasi messa in scena e, proprio per questo, offerto a uno sforzo di vera comprensione. La follia messa alla porta, come lamentava Guido Ceronetti commentando la chiusura del manicomio di Lucca, qui ritrova una casa «di cura», che in qualche modo la protegge e non la esecra.
Gran parte della riuscita la dobbiamo al gesto del palermitano Cesare Inzerillo, che nella sezione Tutti i santi propone le sue formidabili sculture, una commedia di mummie: pazienti, primari, infermieri accomunati da un unico destino di esclusione. Qui sono solo numerati, per i nomi ci vorrebbe il genio di Gesualdo Bufalino che nel suo Museo d’ombre ne rievocò parecchi, come «Rosalia, ’a foddi (la pazza), povera creatura, arsa in perpetuo da invisibili fiamme: abbrusciu, abbrusciu (brucio, brucio)».
Poi, ecco la Sala dei ricordi, con gli effetti personali di esseri non riconosciuti dal mondo, oggetti abbandonati da un’invisibile risacca della storia. Infine restano in mente i disegni di Gino Sandri, le terrecotte di Gaetano Giuffré, gli scatti di Fabrizio Sclocchini. Ma soprattutto La griglia, 90 ritratti di Marilena Manzella, ispirati alle foto prese dalle vecchie cartelle cliniche dei manicomi. È il politico della demenza. Che siate cristiani o buddisti o chissà, questo è il momento di non distogliere lo sguardo dagli inermi, dai sopraffatti, e di provare compassione.