Migra a Roma il Musée d’Orsay
Van Gogh, Renoir, Manet: oltre 60 capolavori dell’istituzione parigina approdano nella capitale - LE FOTO
Quando, nel 1987, si entrò al Musée d’Orsay di Parigi, inaugurato l’anno precedente da François Mitterrand, la reazione fu doppia: bocca aperta per lo stupore, mente che fatica a capirci qualcosa. Nei 100 metri e più della gran navata si apriva uno spazio fantastico, un Salon tutto torri e mura in pietra calcarea color arancione chiaro. Poteva sembrare di percorrere una specie di canyon, oppure di camminare al centro di un tempio di difficile identificazione: sarà egizio? O déco? Quadri e sculture se ne stavano in quel paesaggio architettonico aperto, e restava a te la scelta di quali accostare, la scoperta del più bello. Nessun percorso obbligato, un’immensa libertà di sguardo: le opere si potevano scorgere anche dall’alto di passerelle e scale, da lontano, mescolandole a colpo d’occhio alle centinaia di spettatori che le osservavano. Ecco le folle che amano l’arte: sapevi che esistevano ma ora, per la prima volta, le vedevi. Da metabolizzare, però che spettacolo.
Allieva di Carlo Scarpa, un genio in fatto di allestimenti museali, Gae Aulenti (è lei l’architetta, milanese d’elezione, scomparsa nel 2012, che vinse il concorso per il restyling interno) ci sapeva fare. Il suo talento l’avrebbe dimostrato anche per il Museo d’arte catalana di Barcellona, per Palazzo Grassi a Venezia, per il Centre Pompidou a Parigi.
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Ma il design dell’Orsay era speciale: rispettando l’impianto della stazione ideata nel 1900 da Victor Laloux, modificando il lavoro di restauro dell’équipe Act, innestandosi in un modello-base di percezione più moderna, stabiliva che là dove passarono treni si potevano benissimo contemplare opere d’arte, ma il risultato sarebbe stato lo stesso: la visione di un flusso generale, un habitat dove si è individui, viaggiatori solitari, e massa in movimento. L’elasticità di questo organismo è provata dai nuovi spazi che, aperti nel 2011, hanno modificato ancora l’assetto del museo: blocchi di opere ricalibrate negli accostamenti, una qualità delle luci più mirata.
La storia del leggendario museo (e l’evidenza di quali gioielli questo scrigno contenga) è raccontata ora, qui da noi, in una mostra al Complesso del Vittoriano di Roma (dal 22 febbraio all’8 giugno): Musée d’Orsay. Capolavori. Curata da Guy Cogeval e Xavier Rey, realizzata da Comunicare Organizzando (catalogo Skira), l’esposizione presenta più di 60 pezzi eccezionali migrati dall’istituzione parigina, e con essi l’idea che li connette reciprocamente. All’origine della quale ci fu il desiderio di dare una sede a quelle opere ottocentesche che non potevano entrare al Louvre (dove l’estensione cronologica si ferma ai primi del XIX secolo) né essere accolte dal Beaubourg e dalla sua collezione novecentesca. All’Orsay gli impressionisti, quelli non finiti nelle collezioni americane o russe, trovarono dunque casa, e la faccenda avrebbe di sicuro divertito e soddisfatto uno come Claude Monet, gran pittore, oltreché di acque e regate, proprio di stazioni e fumi e sbuffi di locomotiva.
Se non fosse che proprio qui, dove molti sono i suoi paesaggi, lui si sarebbe ritrovato spalla a spalla coi nemici di un tempo, i pittori cosiddetti pompiers, quelli trionfanti nei Salon. Perché è proprio questa la piattaforma metodologica dell’Orsay: mostrare l’intrecciata complessità dell’arte francese compresa fra il 1848 e il 1914.
Per esempio, ecco una melodrammatica Tamara di Alexandre Cabanel vedersela con una vera femmina di Gustave Courbet. E un elegiaco, tardo Camille Corot riverberarsi nelle nevi di Alfred Sisley e irrobustirsi nelle campagne di Pissarro, Frédéric Bazille e Paul Cézanne. Accanto agli stati d’animo di eccelsi simbolisti come Edouard Vouillard, Maurice Denis, Pierre Bonnard, Paul Sérusier, Odilon Redon, c’è Paul Gauguin, vano, estatico cercatore di Eden perduti. E poi Vincent Van Gogh e Pierre-Auguste Renoir con la questione di fondo: prevale il disagio o la felicità di essere al mondo?
E infine i due rivali, gli snobbissimi principi di quell’età dell’oro: Edgar Degas, qui con le sue danzatrici, viste come strani animali specializzati in movimenti artificiosi; e Edouard Manet, con un quadro davanti al quale Paul Valéry staccò frasi così: "Non metto nulla al di sopra di un ritratto di Berthe Morisot. Mi ha colpito il nero, il nero assoluto, e quel viso dagli occhi grandi, la cui vaga fissità dà un senso di distrazione profonda e offre, in qualche modo, una presenza di assenza". Innamoratevene.