Le opere di Pontormo: il restauro della Visitazione di Carmignano
Le sorprese di un lavoro destinato a riscrivere alcune pagine su un capolavoro del Manierismo
Il giorno dello smontaggio faceva freddo nella Pieve di Carmignano. Appena la tavola ha lasciato l’altare, quando le donne sono state messe a terra, il restauratore Daniele Rossi si è sfilato un guanto e le ha accarezzate. Poi la Madonna e Santa Elisabetta sono sparite nel buio della cassa per essere spedite nel suo studio. Ed è lì che Panorama le incontra adesso, strette nel loro abbraccio in una delle opere più magnetiche del Pontormo: la Visitazione, dipinta attorno al 1528 e pezzo forte della mostra in arrivo nel Palazzo Strozzi di Firenze (Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della "maniera", a cura di Antonio Natali e Carlo Falciani, dall’8 marzo). Lì saranno visibili i risultati dell’importante restauro ora in corso e destinato a riscrivere alcune pagine su questo capolavoro del Manierismo toscano.
«Siamo a metà del lavoro, ma molti particolari sono già riemersi dal bagno d’ambra che li inglobava da anni» spiega Rossi. «Il cielo cupo sta tornando celeste, le architetture avevano subito ripassature di grigio, sotto una di queste ho scoperto il profilo di un piccolo asino che si affaccia dall’angolo del palazzo a sinistra». Eccolo il ciuco di Pontormo, Rossi ancora si emoziona: «Appena è emerso, me ne sono innamorato; ho rivisto il pennello dell’artista che gli tracciava il sorriso». Una scoperta non da poco, come importanti sono altri dettagli che restituiranno all’opera una nuova leggibilità. «Prima che cominciassi a lavorarci, lo sfondo sembrava un unicum, di un tono pressoché uniforme, su cui si stagliavano le figure dai colori chiari con un risultato davvero metafisico. Però quell’uniformità era fasulla» afferma Rossi. «Pontormo aveva concepito i palazzi non come algide quinte teatrali bensì come edifici realistici, con i muri erosi dalle intemperie e dal tempo».
Inedito risulterà il terreno, «che appariva di un grigio uniforme e invece si sta rivelando un selciato veristico, con le pietre che gettano ombre sulla strada accidentata». Vengono fuori altri particolari: una panca manomessa, una finestra che era stata «murata». È un Pontormo meno metafisico, ben più naturalista, a tratti ironico e straordinario disegnatore quello che sta tornando alla luce.
Adesso toccherà alle due misteriose don ne frontali. Poi sarà la volta della Madonna e di Elisabetta, sui cui abiti, come gonfiati dal vento, «esplodono raffinatissimi quei colori interposti al verde: l’ocra gialla, la biacca, il giallo di stagno e piombo, e poi la sfiammatura che si fa col cinabro». Rossi potrebbe andare avanti per ore a raccontare dei colori del Pontormo, di come dovessero apparire ai suoi contemporanei. Ma sa anche che la formula del "riportare all’antico splendore" è «una sciocchezza». Sa che un restauro è sempre un arbitrio e che la sfida è sapersi fermare nel giusto punto di equilibrio, «un compromesso che deve tendere all’originale sapendo che questo, nella sua esattezza, lo potremo solo immaginare».
Esiste insomma una patina irriducibile, una «pelle di rispetto» che è la patina del tempo. Nel caso di Pontormo però non è così facile da interpretare, su di essa si sono addensate infatti le reazioni di vernici e batteri quanto la vita dell’artista: la sua inquieta biografia ha pesato parecchio nella lettura critica dei suoi dipinti. «Forse era un pazzo, un fluttuante psicotico » scriveva Giorgio Manganelli. Certo era un solitario. In casa aveva una stanza senza porta, vi si accedeva grazie a una scala che egli ritirava o allungava secondo l’umore. Teneva un diario su cui annotava solo dolori e minuzie quotidiane: le «tribolazioni» di chi è «disorientato d’exercitio, di panni e di coito». Abbastanza per trarne una figura leggendaria e proiettarne il mito cupo nell’interpretazione moderna delle sue opere.
«Pontormo è anche la letteratura che l’ha inventato» è stato scritto. È verissimo. È anche grazie a questa stratificazione d’idee se oggi lo sentiamo così contemporaneo. Ben venga dunque il Pontormo definito di volta in volta astratto, onirico, surreale, concettuale. Ma con un’avvertenza: con la patina del tempo e delle suggestioni è sempre bene non esagerare. Ce lo insegnano i buoni restauri. E ora ce lo ricorda pure quel ciuco (assai poco metafisico) che spunta da un angolo della Firenze del ’500, e ci sorride.