Showrunner, parlano gli autori delle serie tv
Da Breaking Bad a House of cards, da Mad Men a The Walking Dead
Nel 1999 le tv via cavo statunitensi producevano quello che veniva considerato un numero di serie tv astronomico, ben 26. Oggi, nella nuova età dell’oro della televisione, sono più di 200. Questa ingente produzione si deve ai nuovi re dell’immaginario collettivo, i creatori di Breaking Bad e House of cards, di Mad Men e The Walking Dead, uomini e donne protagonisti del libro-intervista di Neil Landau, Showrunner, grandi storie, grandi serie (Dino Audino Editore).
Di che stiamo parlando
Cos’è uno ‘showrunner’? E cosa fa? Secondo la definizione di Landau, ‘Nel mondo della televisione, è lo showrunner che prende le decisioni. Crea la serie, coordina gli sceneggiatori, è il produttore esecutivo della serie, decide sui registi, sul cast, sulle location, sul montaggio. Ha una visione e la persegue, assicura il rispetto del budget, e infine assicura la firma autoriale sul prodotto finale’. Insomma, lo showrunner è il dominus incontrastato. Un approccio indispensabile per fare funzionare un gruppo tanto eterogeneo di persone e creare la giusta connessione col pubblico, tenendo a bada nel frattempo l’emittente, gli sceneggiatori e i fan.
TV vs Cinema
Dice Robert King, showrunner di The good Wife: ‘Io per un periodo ho lavorato per il cinema e ogni volta sembrava che dovessi scavare nel fango per cercare di ottenere che la mia storia arrivasse sullo schermo […] È stupefacente come prima ci si disperava per avere una goccia d’acqua e ora, lavorando per la televisione, è come se si avesse una pompa antincendio che ti spara il suo getto in faccia. Ora abbiamo la possibilità di decidere noi come sarà il prodotto finale. Credo che, nel mondo del cinema, nessuno a eccezione di Steven Spielberg e di pochi altri, possa decidere così tanto’.
Il pitch
Parte tutto dal ‘pitch’, ovvero dalla proposta di un’idea a un network. In questa fase la concorrenza è altissima: ogni dirigente tra luglio e settembre va in giro ad ascoltare dalle trecento alle cinquecento proposte, dice Ian Sander, showrunner di Ghost Whisperer. Alla fine ordina fra le cinquanta e le settantacinque sceneggiature fra le quali solo una decina avranno una chance di trasformarsi nell’episodio pilota di una serie. Di questi, solo tre convinceranno il network a fare un’offerta per l’acquisto dell’intera stagione, e solo una sopravvivrà per una seconda tornata televisiva. L’ingresso nel mercato di attori come Amazon e Netflix,forti di un’enorme quantità di dati sui propri clienti e fautori della massima libertà nella fruizione dei contenuti, ha smosso un po’ le acque rimettendo in gioco dinamiche produttive date ormai per assodate. Ma il ruolo dello showrunner, se possibile, né è uscito ulteriormente rafforzato.
Cacciatori di sussurri
Quello che oggi si fa con i big data, ieri si faceva con lo studio e la pazienza. I creatori di Ghost Whisperer (in onda dal 2005) raccontano come all’inizio dello sviluppo di ogni stagione creino circa 200 pagine di quello che chiamano ‘Il documento del punto di vista’: ‘Si tratta di un’analisi del mondo dell’ultimo anno: l’economia, la cultura, come le persone si relazionano, l’interconnessione […] Un’istantanea del mondo in tempo reale’. Solo dopo iniziano a lavorare sul concept. L’idea per la serie è nata proprio in seguito alla lettura di un sondaggio che dimostrava come il 70% degli americani fra i 5 e i 65 anni creda nei fantasmi.
Personaggi dickensiani
Ma nessuna serie, per quanto buona, può durare a lunga senza un grande personaggio. ‘Sono comparsi in TV protagonisti pieni di debolezze e difetti che combatono contro le proprie nevrosi e le proprie dipendenze’ scrive Landau. ‘Questi protagonisti non hanno più bisogno di essere dei modelli interamente positivi, posso essere anche anti-eroi’. Anzi, spesso devono esserlo. L’eroe senza macchia è noioso e troppo semplice per essere messo al centro di una narrazione lunga molte stagioni. Servono sfumature, incoerenze, ossessioni, lati oscuri, fallimenti, punti deboli, è così che viene alimentata la nostra passione per i personaggi.
Perché tifiamo per il cattivo
Dexter è un serial killer, Walter White è un signore della droga, Don Draper è un manipolatore e un bugiardo. Eppure siamo capaci di empatizzare con ognuno loro. Anche se non condividiamo la loro morale, comprendiamo cos’è che li spinge a fare ciò che fanno. ‘Tutti quanti siamo attratti sia dal bene sia dal male e quando ne capiamo le motivazioni proviamo un brivido nell’immedesimarci in personaggi che precipitano nell’oscurità. Forse tifiamo per loro perché vogliamo vedere come se la caveranno con i nostri stessi desideri o perché siamo curiosi di vedere se troveranno una redenzione o una fine tragica’. Infine li rispettiamo, perché anche loro -malgrado tutto- hanno il loro codice etico. Eppure secondo Landau resiste un tabù: ‘Con questi esempi inizia a emergere una costante: il pubblico non tollera un personaggio che sia mediocre nel suo lavoro. Mentre, per via della natura umana, sembra accettare tutto da un personaggio percepito come geniale’. Questo probabilmente è più vero per la morale di stampo protestante che per quella di stampo cattolico, ma ciò non toglie che il meccanismo funzioni ugualmente bene per il pubblico più smaliziato.
Con un grande attore cambia tutto
Una cosa è certa: è dal personaggio, oggi, che nasce la storia. Vince Gilligan racconta così l’origine di Breaking bad: ‘Quando ho avuto la prima intuizione, ne sono rimasto intrigato. Con il senno di poi, penso che quello che mi ha colpito non era la trama, era proprio l’idea del personaggio’. E proprio la superiorità del personaggio sulla trama è quello che ha salvato il personaggio di Jessie Pinkman: ‘All’inizio della serie doveva costituire solo un piccolo meccanismo della trama, ci serviva per indicare a Walt la strada nel mondo della malavita e io avevo intenzione di eliminare il personaggio subito dopo. Invece guarda dove ti porta la fortuna quando scopri di avere un attore eccezionale come Aaron Paul che, mentre la storia iniziava, ha aggiunto così tanto valore alla serie che non è più stato possibile eliminare il personaggio’. Sapevate per esempio che lo showrunner di Dottor House ha deciso di far flirtare il Dottore e la Cuddy solo dopo aver visto la tensione sessuale che i due attori sprigionavano sul set? E questo ci conduce a parlare della specificità della scrittura per la fiction.
Non romanzi ma serie tv
Ancora Vince Gilligan: ‘Se si punta sulla scrittura per essere ‘autore’ si dovrebbero scrivere romanzi, ma quando si scrive per la tv e per il cinema si tratta di un lavoro di squadra. La scrittura di uno sceneggiatore vivrà o morirà -non importa quanto sia buona- a seconda della qualità, del talento e dell’entusiasmo degli attori che daranno vita ai personaggi e della qualità del regista che li dirigerà’. Da parte sua, Gilligan ce la mette tutta per produrre una storia inattaccabile e pretende che i suoi sei sceneggiatori stiano chiusi con lui in una stanza ogni minuto del giorno. Lascia più autonomia invece Shonda Rhimes, creatrice di Scandal e Grey’s Anathomy: ‘In genere vado nella writer’s room all’inizio della stagione e dico: ‘ecco come finirà la stagione’. Ognuno sa dove stiamo andando, così lavoriamo per creare una mappa per arrivarci’.
Fatti una domanda e datti una risposta
Ma una volta deciso il finale (se lo si decide in anticipo), perché si sceglie questa o quella strada per arrivarci? David Shore, creatore di Dottor House, è lapidario: ‘Mi da fastidio quando le persone chiedono perché una cosa succede. In particolare se lo chiedono agli sceneggiatori quando vengono intervistati. Non si risponde a queste domande. Primo, non voglio togliere questa cosa al pubblico. Secondo, non penso che una qualsiasi semplice risposta possa essere veritiera’. Questo perché tutti i personaggi hanno una loro risposta, e anche tutti gli sceneggiatori, lo shworunner, il regista e tutti quelli che stanno guardando. O forse no, proprio come nella vita. E il bello, in fondo, è proprio questo.