Simona Sparaco, 'Nessuno sa di noi'
Invece il mondo ha il diritto di sapere. Gli orizzonti di una coppia di fronte al dolore più grande e all'ultimo dei tabù: l'aborto terapeutico
Luce e Pietro sono una coppia che attende un figlio dopo cinque anni di faticosi tentativi. Passati due terzi di gravidanza serena, l'assurdo irrompe sotto forma di un responso medico impostato sulla modalità brutte notizie. Da quel momento la vita quotidiana diventa un tunnel di scelte impossibili da pensare, sul labile confine tra morale e natura, istinto scienza e sopravvivenza. Terzo romanzo di Simona Sparaco, scrittrice e sceneggiatrice romana, Nessuno sa di noi è una coraggiosa incursione in un territorio scomodo: l'aborto terapeutico. Un tabù delegato a Internet e al suo mondo di alieni che si fanno vicendevolmente coraggio.
Prima ancora, è una storia di persone che sanguinano. Una storia di solitudini, disperazione e impotenza, un'improvvisa anestesia del cuore dove il codice materno e quello paterno si divaricano al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza della coppia. Una carrellata di facce di circostanza e asettiche stanze d'ospedale. Una processione di imbarazzi che tengono gli amici in disparte, genitori di aspiranti genitori che riconquistano il loro ruolo in barba alla natura.
"È stata colpa mia?" domanda subito Luce all'ecografista. In esergo, nelle due parti del romanzo, sono un paio di citazioni dal libro 11 della Genesi dove il racconto della torre di Babele è posto all'origine della diversità dei popoli e delle lingue. "Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città". Il mito biblico ha lasciato in eredità alla civiltà occidentale un senso di colpa collettivo alla base del concetto di separazione.
Anche Sigmund Freud concepì il male dell'uomo come legato a misfatti originari che dobbiamo continuamente ripetere ed espiare attraverso il sentimento di colpa. Veniamo al mondo attraverso il parto, un atto di separazione in sé violento dove la felicità si incontra col dolore. Nel caso di Luce e Pietro, però, il dolore si presenta cieco e brutale e senza compromessi: il cammino di una vita che va dalla nascita alla morte può venire bruscamente interrotto ancora prima di cominciare. Se la vita non può essere un dono, non può essere neanche un dovere.
Nella depressione conseguente al precipizio delle endorfine, macchiata dalle fantasie di infanticidio, Luce annaspa senza speranza tra i misteri dell'anima umana, evocati da un anziano guaritore orientale nel corso di un fallimentare viaggio di coppia. Una madre che partorisce un figlio morto deve superare innanzitutto il trauma della caduta dell'anima. Concetto oscuro che tuttavia, ben prima di ogni implicazione fideistica o religiosa, è pre-scritto nel programma genetico comune a ogni uomo e ogni donna, come ha spiegato con parole bellissime Franco Fornari in La riscoperta dell'anima, fulcro creativo di una rifondazione laica della psicoanalisi.
Il celebre mito della biga alata narrato da Platone nel Fedro parla proprio di questo: la vita dell'anima nasce da un mondo che non c'è più (la vita intrauterina) e tuttavia non va a finire nel nulla ma resta, permane come una riminiscenza. "E' dalle madri che sempre partiamo e torniamo": le implicazioni di questa visione in Nessuno sa di noi affondano nelle radici ataviche della nostra specie. Basta, si ribella Luce, dipingerci come Medee o Antigoni o madri criceto che divorano i figli. Solo noi sappiamo (senza che nessuno ce li abbia spiegati) i misteri della natura umana e il senso ultimo delle nostre scelte.
Scrittura terapeutica, scrittura salvifica. Attivando il transfert nella scrittura, Luce dà faticosamente avvio al processo di elaborazione del lutto, dopo aver rischiato di perdere ogni cosa fra cui l'intero orizzonte dei suoi affetti terreni. La vita può continuare se non rimuove ma incorpora in sé il marchio di ciò che non è più. La scrittura diviene allora lo strumento non solo per "togliere il velo di omertà che si stende sopra le nostre teste" ma anche per restituire all'anima la sua immortalità. Quello che non è più, continua a essere sotto forma di rappresentazione.
Moralismo e contromoralismo sono i due umori di sottofondo che rendono la lettura di questo romanzo dolorosa ma necessaria. Simona Sparaco ha trovato il coraggio di saltare giù dalla stella e riaprire la ferita sulle ingiustizie della società che si sommano a quelle del destino, mettendo a nudo l'assurdo delle leggi degli uomini quando invadono spazi privatissimi. In forma aperta, semplice, onesta. E praticando un altro versetto biblico, quello cantato da Bob Marley a ritmo di ska nella sua prima canzone: Judge not, "Non giudicate, per non essere giudicati" (Matteo 7:1).
Simona Sparaco
Nessuno sa di noi
Giunti
pp. 252, 12 euro