Quello dei Manetti Bros è un Diabolik senza fascino, come tutto il film
Luca Marinelli è un Dabolik freddo ma senza charme. Miriam Leone bella e mai fatale. La leggenda del Re del Terrore evapora in un film dimesso e sottotono. Un'altra occasione persa per il cinema italiano
Un’altra occasione fallita dal cinema italiano. Diabolik dei Manetti Bros. si contendeva con Freaks out la palma di film più atteso, dopo mesi di uscite rinviate causa Covid. E ora, sulle tracce del film di supereroi nostrani di Gabriele Mainetti dal mega budget, parimenti, sta lì a contar i delusi.
Diabolik ed Eva Kant sottotono
Dal 16 dicembre al cinema con 01 Distribution, Diabolik ha assoldato il ragazzo d’oro del cinema italiano, Luca Marinelli (tra l’altro memorabile Zingaro psicopatico del film exploit di Mainetti Lo chiamavano Jeeg Robot), investendolo di un’eredità complicata. Mica facile caricarsi addosso la leggenda, il Re del Terrore dei fumetti dell’Astorina, e il suo solido appeal minimalista. Ladro senza scrupoli, cattivo senza ombra di ironia, sguardo glaciale che inchioda, pur nei disegni dai contorni decisi e puliti, nei bianchi e soprattutto nei neri senza sfumature. Marinelli, abituato a ruoli più sopra le righe (come l’appassionato e poi delirante sognatore di Martin Eden), ha dovuto lavorare di contenimento. Ma non basta cadenzare le parole lentamente e mantenere un viso rigido e terreo, fissamente, per sprigionare algido carisma. Il suo sguardo non è tremendamente di ghiaccio. La sua presenza non colma la scena pur quando resta in silenzio.
E poi lei, Eva Kant, la compagna di misfatti di Diabolik. Bionda, bellissima, meravigliosi occhi smeraldo in cui balenano la perfidia e la dolcezza, debolezze e charme della femminilità conciliati con la coerenza di un femminismo maturo. Un mix di ingredienti forse ancor più raro di quello richiesto a Marinelli. Miriam Leone è la prescelta. E Miriam è certamente bella, ma non è fatale. Magari per esserlo bastassero uno chignon e smorfie furbe.
In Diabolik dei Manetti Bros. il fascino è il grande assente: è tutto così freddo, ma di una freddezza piatta e mai dannatamente seducente.
E poi ecco Alessandro Roja - che ha già collaborato con i Manetti nella commedia Song'e Napule - negli spaesati panni del politico George Caron, innamorato di Eva Kant. Serena Rossi, anche lei fedelissima dei Manetti (Song'e Napule e Ammore e malavita), è la compagna triste e ansiogena di Walter Dorian, l’identità di copertura di Diabolik.
La recitazione, tranne sporadici zampilli, è da unghie sulla lavagna. Per fortuna però c’è l’ispettore Ginko, ovvero un Valerio Mastandrea che il suo dovere lo fa sempre, anche ora che per una volta non deve fare il buffone ed è chiamato a facce serie e toni gravosi.
E c’è anche un cameo degno di nota, quello di Claudia Gerini, proprietaria di quadri preziosi: un breve ciak ma carnoso e saldo. È facile fantasticare di lei come Eva Kant, andando indietro nel tempo di una quindicina di anni (del resto già la vedemmo nella parte nel videoclip Amore impossibile dei Tiromancino).
Il Diabolik dimesso dei Manetti Bros.
Siamo nello stato di Clerville di fine anni ’60, nell’epoca in cui le audaci sorelle Giussani ambientarono le avventure del Re del Terrore. A bordo della sua Jaguar E-Type Diabolik svolge le sue attività criminali.
Per ricreare quei luoghi i Manetti hanno usato palazzi, strade, ristoranti e hotel di Courmayeur, Milano, Trieste e Bologna.
In una sorta di operazione nostalgia, i due fratelli romani, più avvezzi alla commedia che al giallo, vanno alle origini del personaggio ideato da Angela Giussani, al primissimo Diabolik. Non hanno alcuna intenzione di rivoluzionarlo o di aggiornarlo. Il loro film si ispira all’albo numero 3 del 1963, L’arresto di Diabolik. Anche nella messinscena ricostruiscono ambientazioni asettiche ed essenziali. «Semplicemente la trasposizione in cinema delle vicende e delle emozioni che abbiamo letto nel fumetto attraverso la nostra interpretazione e il nostro stile naturale. Nient’altro», hanno detto Marco e Antonio Manetti. «Un film che vuole essere cinematografico e non fumettistico (perché il fumetto esiste già ed è bellissimo) ma che vuole anche essere, semplicemente, il film di Diabolik».
Ne esce però un racconto dimesso e scialbo, talvolta goffo. Così ordinario e sottotono. L’ennesima occasione persa, per il cinema italiano, per fondare un franchise esportabile a livello internazionale.
La cosa più intrigante di Diabolik? La canzone di Manuel Agnelli La profondità degli abissi: parole e sound ipnotici e nebbiosi strappano via, facendo sprofondare in oscurità sinuose.
Il primo Diabolik dopo quello di Mario Bava
Non è la prima volta che l’antieroe dell’Astorina abbraccia il cinema. Era il 1968 quando Mario Bava tentò il suo Diabolik, con John Phillip Law e Marisa Mell. Ma Angela e Luciana Giussani ne rimasero scontente. Mario Gomboli, direttore editoriale di Astorina che ha seguito i passi delle due sorelle, ricorda oggi: «Le due belle ed eleganti signore della buona borghesia milanese, che avevano avuto il coraggio di creare il primo fumetto nero, non erano certo tipe da lasciarsi intimidire dal grande schermo. Al contrario: era stata loro intenzione sfruttare la proposta di Dino de Laurentiis solo per dare maggiore visibilità al personaggio, ed erano rimaste deluse». «Quello non è Diabolik!», obiettarono, «non usa le maschere, non lancia pugnali… e poi lei non ha lo chignon».
Da quella delusione derivò la decisione di non permetter mai più a chicchessia di girare un film che non fosse coerente all’immagine e alla filosofia di Diabolik. Negli anni le sorelle rifiutarono proposte milionarie dalle più disparate case di produzione, non solo nazionali, perché nessuna accettava il loro vincolante controllo su soggetti e sceneggiature. Poi il testimone passò a Gomboli, che per vent’anni ha continuato a dire no, fino alla proposta dei Manetti Bros.: «Mi sentii proporre non un film su Diabolik ma il film di Diabolik. Ascoltai analisi puntuali sul personaggio, resoconti di letture attente, progetti figli della creatività delle autrici. Mi fu chiesto di fondere la mia esperienza di fumettista con la loro di registi per spostare senza traumi o tradimenti il Re del Terrore dai disegni al grande schermo, e il loro entusiasmo mi ha contagiato».
Di buone volontà, come recita il detto, è pien l'inferno.