Domotica a voce: basta la parola
Le grandi case hanno creato apparecchi capaci di esaudire ogni nostro desiderio
Sin dai suoi albori, la tecnologia è stata simile a una lingua straniera: per padroneggiarla almeno un minimo, bisognava studiarla. Applicarsi a conoscere come maneggiare una tastiera e un mouse, come districarsi tra le cartelline di un computer, le sezioni di un sito, le troppe icone di uno smartphone. Oggi qualcosa è cambiato: la tecnologia sa parlare, letteralmente, la nostra lingua. Ha imparato a capire cosa le diciamo, può rispondere in modo coerente alle nostre domande, ubbidire ai comandi che le impartiamo. È la rivoluzione copernicana portata dall’ingresso della voce nelle interazioni con le macchine: un nuovo touch, anzi una sua forma ancora più semplificata e immediata perché funziona senza l’intermediazione di uno schermo. È impalpabile, invisibile. Si sposta nell’aria su frequenze sonore.
Stiamo vivendo un passaggio epocale dalla fantascienza alla scienza: dal capitano Kirk in Star Trek che conversava con i robot, dal droide poliglotta C-3PO in Star Wars, a dispositivi in apparenza onniscienti in grado di dirci, chiedendoglielo, se pioverà domani, di ricordarci un appuntamento o la lista della spesa, di raccontarci una barzelletta o leggerci le ultime notizie. Nulla di troppo inedito, in verità: Siri è stata lanciata da Apple negli iPhone nel 2011, Cortana di Microsoft è arrivata poco dopo. Gli assistenti vocali nei pc e nei telefonini non sono più neonati in fasce, sono migliorati perché si muovono oltre il lustro di vita. La grande novità è la colonizzazione delle case, più in generale la loro perdita di virtualità, il loro legame reale con le cose.
Anche in Italia, dopo una lunga attesa, negli ultimi mesi sono sbarcati Google Home e Echo di Amazon: gadget da poche decine di euro del tutto simili a diffusori musicali, con un’intelligenza artificiale di serie. Un maggiordomo premuroso e instancabile che sente una nostra richiesta, la elabora in tempo reale e la esegue con solerzia. È capace di spegnere le luci, attivare una presa elettrica, far partire una canzone o cambiare la temperatura di una stanza. Fino a fare shopping, ordinando il latte che è finito o l’inchiostro che manca alla stampante. Senza mai premere un tasto o sfiorare un display, accontentandosi dei dati di una carta di credito per saldare il conto e di una connessione a internet, perché il cervellone che lo fa funzionare, che ne abilita il potenziale, abita nel cloud.
Secondo un corposo rapporto della società di analisi americana Research and Markets, siamo di fronte a un mercato già robusto ma prossimo al decollo: ha raggiunto un valore di circa 1,7 miliardi di dollari nel 2017 su scala globale; supererà i 9 miliardi del 2023, con un tasso di crescita medio annuo del 32 per cento. Quanto ai protagonisti, gli attori in prima linea, sono i nomi noti già citati, volponi dell’hi-tech con i capitali e il know how per rendere efficace e non una moda effimera tale rivoluzione.
Stando ai dati raccolti dal sito Statista.com, nel 2017 Alexa di Amazon aveva una quota di mercato del 62 per cento, mentre Google Assistant è arrivato al 25 per cento. Rapporti di forza destinati a invertirsi nel 2020, con la società del motore di ricerca in ascesa al 43 per cento e quella guidata da Jeff Bezos in discesa al 34. Comunque, su una base installata in continuo incremento. La restante fetta, il 23 per cento, andrà agli altri attori parlanti sulla scena, da Apple (con HomePod, ancora non disponibile nel nostro Paese) a Samsung. I quali hanno fatto ingresso o lasciato intendere di voler presidiare il settore degli altoparlanti che, tra una canzone e l’altra, chiacchierano amabilmente con i vari membri della famiglia.
Sono giusto le avanguardie di un contagio di massa: gli zelanti parlatori di chip stanno sbarcando nei televisori, nelle lavatrici, nei condizionatori, pensionando manopole e telecomandi, rotelline da girare e pulsanti da schiacciare. Sono saliti a bordo delle automobili, diventeranno la maniera più sensata per interagire con le vetture del futuro quando il volante verrà pensionato e la macchina ci porterà a destinazione. Basterà, è evidente, dirle dove vogliamo andare.
L’obiettivo a cui tendere, l’approdo logico di tale scenario già esiste e di nuovo pare prendere a modello la fantasia del cinema. In particolare un film del 2013, Her di Spike Jonze, in cui il protagonista Joaquin Phoenix flirta fino a innamorarsi di un’assistente vocale con una sensuale voce femminile perché i suoi ragionamenti sono all’altezza di quelli di una donna dotata di neuroni. Senza arrivare a tali derive, le creature di Amazon, Google ed epigoni puntano alla credibilità totale. Ad azzerare i fraintendimenti, per rendersi raffinate conversatrici. Già comprendono frasi come «dimmi il risultato della Juventus» oppure «cosa sta facendo l’Inter», come fossero vecchi amici malati di calcio e ben informati: dalla rigidità del comando preciso è in corso la virata verso l’elasticità del linguaggio colloquiale. Non è un vezzo, ma un passaggio imprescindibile in ottica futura, in uno scenario in cui l’intelligenza artificiale sarà dappertutto. A casa come in ufficio, sui mezzi di trasporto e in fabbrica. Ecco, la voce diventerà il lasciapassare del dialogo con i computer evoluti di domani, robot inclusi: «Affinché le persone e le macchine possano lavorare insieme, devono essere capaci di interagire in modo molto naturale. La conversazione è la via da percorrere per scambiarsi informazioni» sottolinea Murray Campbell, ricercatore della Ibm.
C’è un rovescio della medaglia e si aggancia al funzionamento di questi dispositivi, alla loro necessità di essere sempre vigili per captare quando li interpelliamo pronunciando «Ok Google», «Alexa», «Hey Siri» e formule analoghe. «Si dà alle compagnie l’opportunità di ascoltare i loro clienti» ha fatto notare di recente un articolo di Forbes. Potenzialmente, le nostre conversazioni potrebbero essere usate per venderci i prodotti di cui abbiamo parlato con i nostri familiari, un po’ come succede con i banner sui siti che puntualmente riflettono le ricerche effettuate su internet: «Sarebbe l’ennesimo annebbiamento del concetto di privacy» rileva la rivista americana. Ancora è prematuro, ci sono solo smentite da parte dei diretti interessati che negano tale eventualità, eppure pare una frontiera verosimile, la naturale evoluzione del concetto di pubblicità personalizzata.
Intanto, un sondaggio fa sapere che il 27 per cento degli americani non ha accolto in casa tali gadget perché non si fida di loro. Difficile biasimarli. Candid Wueest, analista della società di sicurezza informatica Symantec, ha dedicato agli «smart speaker» un libro bianco nel quale conclude: «Un hacker che riesce ad avere accesso a questi dispositivi potrebbe creare il caos». Per esempio, spiarci, vedere cosa facciamo se abbiamo installato una telecamera di sicurezza, spegnere l’allarme e aprire la serratura domestica se stiamo utilizzando sistemi di antifurto di ultima generazione connessi alla rete e controllabili a distanza. Inedite vulnerabilità il cui antidoto è il buon senso: va bene usarli per comandare le luci o la musica, se qualcosa va storto verremo svegliati da un pezzo rock a tutto volume o da una tapparella che si solleva nel cuore della notte. «Ma non riesco a convincermi che sia una buona idea utilizzarli per bloccare e sbloccare una porta» spiega Pam Dixon, direttore esecutivo del World Privacy Forum, società di analisi americana specializzata nella protezione dei dati: «Non si può» ha aggiunto «pensare di affidare la propria vita a un assistente domestico». Che sa fare di tutto, perché tutto ascolta grazie a un sistema raffinato di microfoni: «Ogni suono che Winston emetteva sopra il livello di un sospiro molto basso, veniva raccolto». Così scriveva George Orwell nel celebre 1984. L’ennesima profezia distopica che si avvera, la fantascienza che si fa scienza: il grande fratello, con un enorme orecchio.