Due uomini, quattro donne e una mucca depressa al cinema – La recensione
Fuga da Roma in un "pueblo" spagnolo: tra sole, paella, señoritas e coro parrocchiale un compositore deluso ritrova se stesso, l’amore e l’ispirazione
Che ci fa in un remoto villaggio spagnolo quel compositore scappato da Roma, nauseato da traffico, manifestazioni e processioni? Risponde il film: ufficialmente è andato a visitare un amico che vive là. In verità è soprattutto un uomo in fuga, che ha fatto naufragio col matrimonio e ha smarrito l’ispirazione artistica che lo ha reso famoso.
Parte da quiDue uomini, quattro donne e una mucca depressa (in sala dall’8 giugno, durata 95’), titolo wertmülleriano e firma di Anna Di Francisca, sceneggiatrice e regista milanese conosciuta dal pubblico soprattutto per La bruttina stagionata, sua fortunata opera d’esordio del 1996, seguita dal meno noto Fate un bel sorriso (2000) e guarnita nel tempo da documentari e serie tv. Il compositore si chiama Edoardo Levi (Miki Manojlović, anche attore per Emir Kusturica in On the Milky Road), l’altro uomo tra i due è, appunto, l’amico Emilio (Eduard Fernández) e ce ne sarebbe anche un terzo, il barbiere Carlos di Neri Marcorè oltre il pittoresco Generale (Hector Alterio) conservatore, guerriero, nostalgico e invariabilmente franchista.
Signorine spasimanti per un “maestro” straniero
Le quattro donne, che letteralmente spasimano attorno al musicista venuto da lontano, sono Julia (Maribel Verdú), Marta (Ana Caterina Morariu), Victoria (Laia Marull) e Sara (Manuela Mandracchia). Poi naturalmente c’è la mucca, pezzata, ogni tanto muggente e, così dicono, depressa perché probabilmente annoiata dall’andazzo di un luogo dove succede nulla e dove serve di sicuro una scossa per cambiare il corso delle cose. E visto che ci sono in ballo tanti numeri le scosse sono addirittura due: una, ovvio, rappresentata da Edoardo; l’altra dal capitombolo fratturante che costringe il parroco locale a restare immobile e a lasciare la direzione del coro della sua chiesa nel quale fra i tanti cantano, neanche a farlo apposta, le quattro señoritas e lo stesso Emilio.
La rigenerazione e l’armonia della musica
Edoardo è schivo e all’apparenza perfino un po’ burbero. Figurarsi come reagisce, lui che pare più depresso della mucca, quando gli chiedono di prendere il posto del parroco e mettersi a guidare il coro. Al no più categorico, però, si sostituisce pian piano il sì, anche perché cresce in parallelo l’interesse – ricambiato – per Julia. Ma non solo. È lui, in verità, a sentirsi diverso e rigenerato da quel luogo, da quella gente e dalla condizione personale che ne deriva. Così il coro e i sentimenti - ancorché discreti, cauti, pacati e chissà se realizzabili – che lo accompagnano passeggiano in un’armonia anche musicale che tutto influenza e governa, benignamente, attraversando le vite di ciascuno.
Vino, paella, colori di Spagna e sottile erotismo
Un pueblo per ritrovare se stessi. Un luogo che cambia la vita del protagonista il quale, a sua volta, cambia la vita di quel luogo e dei suoi abitanti. Sintonie e simbiosi. In una Spagna solare e colorata, musicale ed esuberante, profumata di campagna, di vino e di paella, percorsa da un tracciato d’erotismo sottile e riservato, molto al femminile e dolcemente malizioso. Dove il canto di quel coro concepisce sogni e visioni e, in definitiva, un clima di magìa capace di impregnare con delicatezza un racconto molto lineare e il suo profilo di commedia brillante, garbata e naturalmente corale.
Una commedia anche in streaming: come vederla
È il cinema delle sorprese. Abbastanza innovativo anche nei suoi modi di produzione, con una regista italiana che va a girare in Spagna una storia molto “spagnola” con un cast internazionale nel tentativo, in buona parte riuscito, di proporsi con un genere – la commedia, appunto – aggiornato e rivisitato tra ispirazioni personali, echi del primo Almodóvar, indizi di Benvenuti al Sud e addirittura, nel surreale grottesco vagabondaggio della mucca depressa tra le pieghe del racconto, rimandi a certe intuizioni buñueliane. Non che vada tutto liscio, s’intende. La storia, nel suo avvio pigro e sonnacchioso, fatica un po’ a costruirsi una sfera d’interesse, trovando però presto le cadenze giuste e i migliori equilibri stilistici grazie anche ad una recitazione che – collettivamente e con alcune individualità di rilievo – riesce spesso a divertire e coinvolgere (tra gli attori c’è anche Serena Grandi nei panni di Irma, domestica muta che ritroverà la parola).
Curioso, va detto, il destino di questo film. Presentato al festival di Torino nel 2012 e uscito poco dopo in Spagna col titolo Como estrellas fugaces, era pronto da due anni nella sua versione italiana. Esce soltanto ora, dopo una sosta certo dannosa e poco giustificabile, anche con una proposta di streaming day and date sulla piattaforma CineMAF in modalità pay per view (l’acquisto sarà possibile solo nei comuni italiani esclusi dalla distribuzione in sala).