Tutte le falle del salvataggio dell'Atac
L'operazione voluta dalla Raggi prevede il prolungamento senza gara di un contratto di servizio mai rispettato dall'azienda. Con un costo di 100 milioni
La levata di scudi di Trenitalia contro l’eventualità che i suoi 31 milioni di crediti verso l’Atac finiscano nel calderone del concordato preventivo (con decurtazione del 70 per cento e rinvio del pagamento alle calende greche) è solo l’ultimo squarcio di luce su una situazione che sfida le regole della buona amministrazione e perfino le leggi dell’economia.
L’azienda di Ferrovie dello Stato ha spiegato ai tre commissari responsabili del concordato Atac una cosa assai semplice: che la sua posizione non ha nulla a che vedere con quella dei 1200 fornitori in attesa di ricevere il dovuto, perché i suoi crediti non derivano dal mancato pagamento di beni o servizi ma dal denaro riscosso in nome e per conto di Trenitalia (nell’ambito dell’accordo per il biglietto integrato treno-autobus comunale-autobus regionale) e illegittimamente trattenuto dall’Atac. Quindi se i soldi non saltano fuori più che di concordato bisogna parlare del reato di appropriazione indebita.
Se la tesi venisse riconosciuta valida, sarebbero altri 93 i milioni da trovare (a quelli di Trenitalia vanno infatti aggiunti i 62 del Cotral, derivanti da identica situazione) per convincere il giudice che l’Atac può rimettersi in piedi con il piano industriale la cui stesura definitiva dovrà arrivare entro un mese.
Si potrà obiettare che, di fronte a un debito consolidato di oltre 1,3 miliardi di euro, un centinaio di milioni non spostano più di tanto. Ma il fatto è che, al di là delle cifre, la scialuppa di salvataggio preparata dal sindaco Raggi per l’azienda di autobus e metropolitane di Roma imbarca acqua da tutte le parti.
Perché non può funzionare
Il pilastro dell’operazione è il contratto di servizio per il trasporto pubblico a Roma che Raggi ha già annunciato di voler affidare ancora una volta (senza gara) all’Atac. È fattibile? “La legge Madia non lo esclude“ spiega il senatore del Pd Stefano Esposito, che durante la giunta di Ignazio Marino è stato per pochi mesi assessore ai Trasporti di Roma “ma solo a patto di dimostrare che si tratta della strada più conveniente per l’amministrazione, impresa in questo caso a dir poco ardua. Senza contare che la stessa legge prevede per chi scelga l’affidamento diretto al posto della gara una penalizzazione in termini di minori trasferimenti statali di almeno 100 milioni di euro. Roma se lo può permettere?”.
Il precedente
Qualcosa dovrebbe insegnare l’ultimo contratto di servizio siglato nel 2015 fra il Comune di Roma e la sua controllata, a condizioni già allora del tutto fuori portata per l’azienda. “All’epoca” osserva oggi Esposito, che firmò quel documento “avevamo un progetto di ristrutturazione che ci rendeva fiduciosi nella possibilità di Atac di rispettare quelle condizioni”.
Le cose sono poi andate molto peggio del previsto, come ormai tutti sanno, e la conseguenza è che l’azienda è sempre stata largamente inadempiente rispetto al contratto pagato con le tasse dei romani. Ora, proprio sulla base del prolungamento di quel contratto mai rispettato (che per questo motivo qualunque concorrente potrebbe contestare al Tar con ottime probabilità di successo) il Comune di Roma cerca di convincere il giudice che l’azienda si può rimettere in equilibrio.
E qui c’è un altro bel paradosso, perché l’argomento più concreto portato a supporto della tesi è l’aumento dell’orario di lavoro di 2 ore a settimana (da 37 a 39) di autisti e macchinisti, “venduto” come una grande iniezione di produttività. Peccato che si tratti né più né meno di quanto già stabilito nell'ultimo contratto del trasporto pubblico locale mai applicato a Roma. L’ex direttore dell’Atac Bruno Rota è stato accompagnato alla porta, così come il predecessore Marco Rettighieri, anche perché cercava (inutilmente) di farlo rispettare.
Possibile che per portare l’Atac dagli oltre 200 milioni di perdita annua di oggi al guadagno necessario per ripagare in un tempo ragionevole (diciamo vent’anni) il debito di 1,3 miliardi basti far rispettare una clausola del contratto nazionale finora illecitamente disapplicata? Se così fosse non vorremmo trovarci nei panni dei componenti degli ultimi cda, esposti a una richiesta di danno erariale gigantesca.
E siamo all’ultimo punto. Dal momento che il concordato preventivo non sembra avere gambe per arrivare da nessuna parte, qual è il vantaggio di una procedura che costerà ai romani ancora un milione e mezzo di compensi per spostare il redde rationem dell’Atac, forse, a dopo le elezioni?