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(Istock)
Economia

Quegli artigiani che reagiscono alla crisi con l'e-commerce

È l'ora della Entrepreneurial economy. E, per sopravvivere, i piccoli produttori del terzo millennio colgono la sfida digitale.

  • L'ora dell'Entrepreneurial economy
  • Mirta, la piattaforma per fare sistema sul mercato globale
  • Il decalogo per vendere online

«La crisi offre sempre opportunità. E Internet può essere una soluzione. Se un anno fa con il negozio chiuso ci fossimo pianti addosso, il nostro e-commerce non sarebbe passato da 20.000 a 600.000 euro». Nicola Olivieri lancia un messaggio accorato ai piccoli produttori come lui: «Non abbattevi. Reagite e accettate la sfida».

Il titolare di Olivieri 1882, un ragazzo di 34 anni, la sua sfida l'ha vinta. Quella che era una pasticceria artigianale di famiglia di una cittadina del profondo Veneto, Arzignano in provincia di Vicenza, è diventata un player globale, con addirittura un sito completamente dedicato al mercato americano.

Già, perché in questi tempi in cui il Covid sta mettendo in ginocchio artigiani, aziende a conduzione familiare e piccoli produttori, per loro si è anche aperta una chance straordinaria: il mercato globale. Come sempre capita nei momenti di difficoltà, dalla crisi nascono le opportunità. E il confinamento a casa ha provocato un cambiamento irrevocabile nelle abitudini di acquisto dei consumatori, orientandoli in modo repentino sugli acquisti digitali.

In Italia, il primo semestre del 2020 è stato segnato da un boom delle vendite online: 2 milioni di italiani in più hanno utilizzato un servizio e-commerce. E, nel mondo, nel commercio al dettaglio la quota dell'e-commerce è passata dal 14% nel 2019 a circa il 17% nel 2020. L'impennata delle vendite online ha dato al digitale una spinta impensabile solo 12 mesi fa, trasformando i negozi online in un'ancora di salvezza per tante aziende, soprattutto quelle piccole, più esposte ai marosi della tempesta pandemica.

Come ha messo in rilievo un webinar organizzato durante la Milano Digital Week da Shopify, una delle più avanzate piattaforme di e-commerce a livello globale, questa è l'ora della «Entrepreneurial economy». Durante l'evento, sono state presentate le testimonianze di chi ha colto la sfida digitale per partecipare al cambiamento.

Olivieri 1882 è un caso da manuale. «Noi abbiamo un sito da circa cinque anni, in cui fino all'anno scorso vendevamo qualcosina senza puntarci più di tanto, perché ci concentravamo sul negozio fisico e sulla vendita b2b, cioè a enoteche, gastronomie e boutique alimentari d'eccellenza» spiega Nicola Olivieri. «Durante la prima ondata del Covid, con il negozio chiuso e i nostri clienti b2b e i rivenditori che cancellavano gli ordini, ci siamo trovati con il cerino in mano. L'unica via di scampo era l'e-commerce. Il sito non era strutturato benissimo, ma per la Pasqua 2020 abbiamo puntato su quello».


Nicola Olivieri, titolare di Olivieri 1882.


Una scelta vincente. «Abbiamo subito visto una risposta importante, anche grazie a una serie di fattori che si sono concatenati, non ultimo dei quali il fatto che nel 2019 avevamo preso il premio del Gambero rosso per la miglior colomba artigianale d'Italia, che ci aveva dato visibilità» prosegue Olivieri. «Questo concatenarsi di fattori favorevoli ha creato un'onda d'urto che ci ha quasi spaventato. Un giorno, arrivando in ufficio, abbiamo trovato una valanga di ordini. E abbiamo temuto di non farcela. Ma abbiamo accettato la sfida, a mio avviso nel migliore dei modi, stravolgendo il nostro modo di lavorare».

Poiché aveva difficoltà a gestire autonomamente il vecchio portale, che si bloccava quando c'erano picchi di traffico, dopo Pasqua la pasticceria è passata su Shopify. «Adesso vendiamo le nostre colombe in tutto il mondo: dalla Nuova Caledonia alla Malesia, passando per la Nuova Zelanda» conclude il pasticciere vicentino.

Società canadese fondata nel 2006, Shopify è in Italia dal 2019. «La nostra piattaforma permette di vendere online creando il proprio sito e-commerce» spiega Paolo Picazio, responsabile per lo sviluppo del mercato italiano. «La grande rivoluzione è stata quella di permettere di raggiungere quest'obiettivo anche a persone che non sono tecnici. Di fatto la piattaforma è estremamente semplice da usare. Con un minimo impegno e una spesa limitata, consente anche al semplice imprenditore privo di conoscenze tecnologiche di creare con pochi clic la sua presenza digitale».

La piattaforma canadese non è l'unica nel suo genere: le altre si chiamano Prestashop, Magento e WooCommerce. «Noi siamo però i leader di mercato a livello mondiale: un milione e 700.000 negozi girano su Shopify. Erano un milione fino a 12 mesi fa» sottolinea Picazio. «In Italia, la crescita è stata ancor più esponenziale: nel 2020 siamo aumentati di quasi il 200% rispetto al 2019». Fra i loro clienti, la blogger Cliomakeup, che vende su Shopify la sua linea di cosmetici. Ma anche tanti ristoranti, che la usano per vendere direttamente online, bypassando i classici circuiti di food delivery, come Deliveroo o Globo. Per esempio a Milano c'è Contraste, un ristorante stellato in zona Navigli, che ha creato la propria versione online su Shopify. Si chiama Roc Milano e consegna a domicilio con i propri fattorini.

Fino a cinque-dieci anni fa, creare un sito ecommerce di un certo livello costava intorno ai 10.000 euro, oltre alle continue spese di manutenzione e aggiornamento. Shopify ha rivoluzionato il mercato. «La sua caratteristica fondamentale è di essere self-service e non avere costi aggiuntivi, perché si prende carico anche della manutenzione e dell'aggiornamento del sistema» spiega Picazio: «Il nostro piano più economico costa 29 dollari al mese più una piccola percentuale (1,9%) sul fatturato generato online e 25 centesimi per ogni transazione. Quindi un piccolo imprenditore con meno di 25 euro al mese può avere il proprio sito di e-commerce».

Il costo massimo per le piccole imprese è di 299 dollari al mese. Poi c'è la versione enterprise le grandi aziende che si chiama Shopify Plus, utilizzata per esempio da Alessi e Pittarosso, che costa 2.000 dollari al mese. Ma come funziona materialmente la piattaforma? «L'imprenditore va su Shopify.com, si registra, dopo di che ha accesso a un pannello per impostare informazioni come il nome del sito e creare le schede prodotto» dice il responsabile per lo sviluppo di Shopify. «È poco più complicato che creare la propria presenza su un social network. Inoltre forniamo un supporto 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche in italiano».


Paolo Picazio, responsabile per lo sviluppo di Shopify.


Per i pagamenti, si può scegliere di attivare un prodotto che si chiama Shopify payments, che di fatto permette di accettare le principali carte di credito. Senza costi ulteriori, sottolinea Picazio: «Tutto quello che è creazione, settaggio e impostazioni del sito è incluso nei 29 dollari al mese. Quanto poi alle spedizioni, la piattaforma ha una serie di integrazioni che permettono di dialogare con i principali corrieri».

Ma quanto tempo deve prevedere di dedicare all'ecommerce il piccolo imprenditore? Risponde Picazio: «Dipende dai volumi che il merchant fa. Lo sviluppo della propria presenza online deve essere parte di una routine quotidiana, in cui ogni giorno - oltre ad evadere gli ordini - si gestisce la comunicazione con i clienti, si cura la propria presenza social, si dà spazio a qualche prova, come ad esempio il cambio dei testi delle schede prodotto, e si segue l'assistenza clienti».

Un sistema impegnativo ma tutto sommato semplice, che ha permesso a un'altra realtà di provincia, la macelleria Pucci di Terni, di diventare un player nazionale. Negozio di famiglia fondato nel 1964 nel centro della città umbra, ha iniziato a vendere online porchetta, stagionati di nero semibrado e pollame ruspante l'anno scorso con il primo lockdown. E in poco tempo ha trovato clienti in tutta Italia, tanto che nel mese di marzo le vendite online hanno toccato quota 40% del fatturato totale. «Se il sito continua così, e riesce a gestire il sistema di evasione degli ordini, entro l'autunno supererà il punto vendita» conclude Picazio. «E tutto questo pressoché senza spesa pubblicitaria, ma solo grazie a una gestione dei social a 360 gradi».


Gli artigiani del terzo millennio

Mirta, la piattaforma per fare sistema sul mercato globale

Ciro Di Lanno

Ciro Di Lanno, co-fondatore di Mirta.

«Io sono cresciuto nella sartoria di mia nonna a Napoli. E ho creato la piattaforma Mirta per fare sistema fra gli artigiani, portando nel mondo il meglio del made in Italy». Ciro Di Lanno, 31 anni, ha i modi garbati del bravo ragazzo del Sud, ma la grinta di uno startupper della Silicon Valley. Una sintesi vincente: nel settembre 2019, a neanche 30 anni, ha fondato, assieme a Martina Capriotti, un sito web per promuovere «la bellezza dell'artigianato e della tradizione italiana». E ha fatto centro: il primo anno, il 2020, la piattaforma ha chiuso con un fatturato di tre milioni di euro. Il 2021 dovrebbe toccare quota 10 milioni di euro. Panorama lo ha intervistato.

Che cos'è Mirta.com?

«Una piattaforma in cui ciascun artigiano è presente con una sua pagina, che curiamo noi. In sintesi, noi lo aiutiamo a entrare in contatto diretto con il consumatore finale, che può entrare nella pagina dell'artigiano X, conoscere la sua storia, vedere i suoi video e acquistare i suoi prodotti. In pratica, lasciamo l'artigiano focalizzarsi sul prodotto e noi ci occupiamo del marketing, della logistica, delle spedizioni, dei resi... Cioè di tutte quelle attività extra che per gli artigiani sono di solito abbastanza onerose e complesse».

In sintesi, siete un aggregatore?

«Esattamente. Oggi per i nostri artigiani è molto difficile vendere sul mercato globale con competitor giganti, dai grandi brand ai grandi marketplace come Amazon e Alibaba. La nostra idea è stata di metterli assieme, aggregarli e fare sistema, per raggiungere quella scala che li renda competitivi con questi giganti».

Ma come siete arrivati a quest'idea?

«Io sono nato e cresciuto nella bottega di uno di questi artigiani: la sartoria di mia nonna. Quindi ho molto a cuore la tematica perché i miei primi ricordi sono in quella bottega. Poi ho fatto un percorso tutto diverso, tutto mio. Mi sono laureato in fisica a Napoli e avevo intrapreso la carriera della ricerca. Poi mi sono reso conto che quella non era la mia strada. Cercavo un contesto più dinamico, più sfidante. Allora sono passato al mondo del business, al mondo della consulenza strategica internazionale, dove ho lavorato per Boston Consulting Group, nell'ufficio di Milano. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata la cofondatrice di Mirta, Martina Capriotti, che oggi ha 30».

Ma poi è andato negli Stati Uniti...

«Sì, sono andato in Silicon Valley per due anni a fare un programma in Business a Stanford, perché già allora l'idea era di intraprendere una carriera imprenditoriale, provando a lanciare una mia azienda. Gli Stati Uniti mi sembravano il posto migliore per farlo. Dopo aver lavorato a diverse idee, fra il primo e il secondo anno insieme a Martina ho messo a fattor comune anche la sua esperienza. Al tempo lei era in Asia, dove lavorava con mega-brand della moda, come il coreano MGM (il Louis Vuitton di Corea), e toccava con mano l'importanza del made in Italy. Così abbiamo iniziato a ragionare su come poter aiutare i nostri artigiani. Da lì è nata l'idea di Mirta, fondata nel 2019 quando io ero ancora in Silicon Valley. Poi siamo rientrati in Italia, a Milano. Oggi abbiamo un team di 30 persone, tutte under 30. È un'azienda molto giovane, con tanti ragazzi molto talentuosi che hanno voglia di fare e aiutare quello che è uno dei settori storici del nostro Paese».

Quindi in Asia avete la conferma del valore del nostro artigianato.

«Proprio così. Martina lavorava con megabrand del lusso asiatici che stavano cercando di spostare la produzione dai piccoli artigiani in Italia pur di avere il famoso cartellino "Made in Italy". Così abbiamo iniziato a capire che c'erano tanti artigiani in Italia che facevano prodotti di altissima qualità, ma l'unico modo per arrivare sul mercato, per esempio coreano, era produrre per un grande brand».

Pagati poco, peraltro...

«Rispetto al prodotto finale assolutamente sì. L'Italia ha ancora una forte base artigiana: a oggi le piccole imprese artigiane che lavorano nell'ambito della moda sono più di 58.000, nei settori del tessile, dell'abbigliamento, della pelletteria e del calzaturiero. Eppure la maggior parte sono costrette a lavorare come terziste per i grandi brand. Noi invece vogliamo farli lavorare con il loro nome di famiglia».

Anziché farli lavorare per altri marchi, voi volete portarli online con il loro nome?

«Proprio così. Anche perché in parallelo il cliente internazionale è estasiato da questi prodotti. Per il cliente internazionale avere un prodotto della bottega fiorentina che esiste da 70 anni, alla terza generazione, fatto a mano, autentico e unico, ha un valore inestimabile. I nostri clienti americani ma anche quelli asiatici, quando ricevono i nostri prodotti sono alle stelle. Perché è qualcosa di unico e introvabile sul loro mercato».

In questo modo si esce anche dai cliché dei grandi brand, che ultimamente possono essere anche pacchiani.

«Esatto. Noi vediamo un trend contrario, molto minimal, con modelli molto classici, in molti casi che non vanno per collezioni, ma con pezzi sempre disponibili».

Insomma, è il contrario della fast-fashion...

«Esattamente. Esattamente».

Perché avete scelto il nome Mirta?

«Per associazione alla pianta del mirto. Nella mitologia la pianta rappresenta il simbolo di Venere ed è associata alla bellezza. Anche nella Primavera di Botticelli, la Venere è dipinta di fronte a un cespuglio di mirto. Il nome Mirta rappresenta insomma la nostra missione».

E come sta andando il sito?

«Benissimo, direi. Dalla data del lancio sono passati 16 mesi e siamo cresciuti tantissimo. Abbiamo consegnato più di 10.000 prodotti in giro per il mondo, in più 34 Paesi. E oggi abbiamo più di 150 artigiani sulla piattaforma. Non nascondo che il contesto generale ha aiutato, visto che c'è stato il boom dell'online».

Ma come funzionano materialmente le vendite?

«Gli artigiani hanno accesso gratuito alla piattaforma, nel senso che non pagano nulla. Noi creiamo la loro pagina e sviluppiamo i loro contenuti: video, foto, schede dei prodotti... Curiamo cioè la loro immagine e li portiamo online. E solo nel caso in cui vendono i prodotti, tratteniamo una percentuale».

Si può sapere a quanto ammonta?

«Beh, questo è un dato un po' sensibile».

Ma in linea di massima?

«Possiamo dire che ci poniamo fra il 40 e il 50%».

È possibile fare un confronto con quello che gli artigiani prendono lavorando come terzisti?

«Abbiamo fatto uno studio sul margine per artigiano: in alcuni casi raddoppiano i loro margini rispetto a quando producono per il grande brand. Perché, eliminando tutti i passaggi della catena, abbiamo ottenuto un prezzo più contenuto per il cliente e più margine per l'artigiano».

Prezzo più contenuto in che senso?

«In realtà siamo a un quarto rispetto al prezzo del grande brand. Prendiamo una borsa. Nel nostro caso in generale viaggia sui 450-500 euro al cliente finale. Lo stesso prodotto del grande brand esce fra i 2.000 e i 2.500 euro».

Ovviamente non potrà essere lo stesso modello realizzato per la grande casa di moda?

«Assolutamente no. I design sono ovviamente degli artigiani e ovviamente devono differenziarsi rispetto a quelli che producono come terzisti».

Voi accettate qualunque artigiano?

«No. Essendo il nostro un marketplace di lusso, facciamo una selezione. Ci sono alcuni criteri indispensabili: produrre completamente in Italia, essere un'azienda artigiana, lavorazione fatta per la maggior parte a mano, quindi non industriale. Ci piace molto quando un'azienda ha una lunga storia. E il prodotto dev'essere di qualità alta, di lusso».

Ma tutti i vostri prodotti sono made to order, cioè su ordinazione?

«Sì. Questa è un'altra cosa molto bella. Noi all'inizio avevamo un po' di prodotti made to order e la maggior parte a magazzino. Poi con il Covid abbiamo scoperto che, con le botteghe chiuse, non si poteva produrre. Allora abbiamo introdotto la formula tutto made-to-order e i clienti acquistavano e acquistavano anche molto volentieri. Dovevano aspettare che gli artigiani riaprissero le botteghe e iniziassero di nuovo a produrre, ma con l'idea che il prodotto era fatto apposta per loro erano disposti ad aspettare anche alcuni mesi».

Mesi?

«Sì. Adesso noi di fatto siamo quasi totalmente sul made to order, l'80%. E il tempo medio di attesa è intorno alle due settimane, 20 giorni. Ma ci sono casi di prodotti particolarmente richiesti per cui ci sono anche due mesi di attesa. E i clienti sono ben disposti ad aspettare, perché capiscono il valore di un prodotto unico fatto apposta per loro».

Al momento dell'acquisto dichiarate al cliente il tempo di attesa?

«Certo. Ma non è che in quei due mesi lo abbandoniamo. In quei due mesi gli facciamo vedere cosa sta succedendo al loro prodotto. Gli mandiamo degli update via mail in cui vede che è arrivata la pelle nella bottega, che l'artigiano la sta lavorando... Questa è l'idea alla base del nostro progetto: noi portiamo il cliente, ovunque si trovi nel mondo, nella bottega del suo artigiano».

E qual è stata la reazione iniziale degli artigiani?

«All'inizio è stata molto dura trovarne con cui collaborare. Eravamo in una fase pre-Covid. Non avevamo un sito. Eravamo due ragazzi trentenni... È stato molto difficile convincere a salire a bordo i primi cinque-dieci. Poi quando abbiamo avuto il primo sito e potevamo dimostrare che era disegnato e pensato proprio per un artigiano e per le sue esigenze, qualcosa si è mosso. E tanti artigiani hanno accettato di lavorare con noi. Con il Covid poi è cambiato tutto: adesso non dobbiamo chiamare pro-attivamente, ma rispondere solo alle telefonate che riceviamo perché le richieste sono esplose e per tutti gli artigiani è diventato un must avere un canale online».

Il Covid avrà contribuito...

«Quando è scattato il lockdown molti artigiani, anche quelli che magari già lavoravano con il loro marchio, si appoggiavano a negozi fisici. Però tutti questi hanno dovuto chiudere e hanno cancellato gli ordini. Quindi all'improvviso gli artigiani si sono trovati ordini cancellati, produzione bloccata e nessun ordine in arrivo. Il momento era molto critico. Ma noi siamo riusciti, durante il periodo della chiusura delle botteghe, a vendere online tutto quello che era stato cancellato dalle boutique, Inoltre, con la formula del made to order, abbiamo portato a casa ordini che sono stati evasi appena le botteghe sono state riaperte. Per alcuni artigiani prima del Covid noi facevamo il 2% del fatturato, ad aprile quando sono rientrati nelle botteghe facevamo più del 50%. Diciamo che abbiamo dato loro una bella mano».

Ma cosa succede quando un artigiano vi contatta? Andate nella sua bottega?

«All'inizio andavamo a trovare ogni artigiano. Adesso, con il Covid, facciamo tutto da remoto. La visita è diventata una videochiamata in cui loro ci mostrano la bottega, il laboratorio e i collaboratori. Poi ci facciamo mandare tutti i loro prodotti per controllare la qualità e fare le foto».

E dite di no a tanti?

«A un 50%. Perché magari i produttori non hanno i requisiti per noi necessari o perché i prodotti non raggiungono la qualità che desideriamo».

Tre milioni di euro di fatturato lo scorso anno. Cosa prevedete per quest'anno?

«Siamo molto ambiziosi e anche il nostro piano di crescita è molto ambizioso. Speriamo di superare o almeno di avvicinarci molto ai 10 milioni».

Già quest'anno?

«Sì, siamo ambiziosi, giovani, abbiamo molta voglia di fare e ci piace sognare in grande. Per come sta andando il progetto, vediamo i margini per crescere tanto già quest'anno. Siamo presenti in oltre 30 mercati e vogliamo continuare a espanderci».

Qual è il posto più impensato in cui avete mandato un vostro prodotto?

«Poche settimane fa abbiamo fatto una spedizione in Brunei. Ma abbiamo venduto anche in Colombia e in Nuova Zelanda».

Ma il mercato principale qual è?

«Gli Stati Uniti».

Il decalogo per vendere online

I consigli di Paolo Picazio, responsabile per lo sviluppo del mercato italiano di Shopify per cogliere la sfida della Entrepreneurial economy.

1. Saper sperimentare velocemente

Perché il digitale permette di capire quasi in tempo reale se le cose funzionano oppure no.


2. Riuscire a costruire una community attorno al proprio marchio

È un'operazione che i brand di successo fanno sempre più spesso, soprattutto usando i social media.


3. Investire sul canale di supporto

In un mondo che usa sempre più i canali di messaggistica, come Messenger e WhatsApp, i clienti si aspettano risposte quasi in tempo reale. Quindi assistenza post vendita ma anche pre vendita.


4. Essere in grado di leggere e interpretare i dati

È fondamentale per capire come sono arrivati gli utenti sul sito, quanto ci sono rimasti e quali sono i prodotti più venduti.


5. Saper fare leva su valori differenzianti

La sostenibilità e l'inclusione sono valori che premiano tutti gli imprenditori digitali.


6. Ragionare in termini di «mobile first»

Gran parte degli acquisti online avviene ormai da cellulare: nel 2020, in Italia, il 51%. Ecco perché occorre pensare a una strategia che metta al centro lo smartphone.

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Elisabetta Burba