Automobile in Italia - Il problema non è l’italianità del gruppo Stellantis
La Rubrica - Pubblico & Privato
Il dibattito sul ruolo dell’Italia nella filiera globale della produzione di automobili si è ancora una volta riacceso. Il nostro Paese è il sesto costruttore europeo dietro a Germania, Spagna, Francia Repubblica Ceca e Slovacca, con una produzione di circa 770 mila veicoli, tra leggeri e pesanti, che vale oltre 45 miliardi di euro all’anno. Si tratta di una posizione importante, ma che, inutile negarlo, appare sempre più secondaria per la filiera globale del settore.
Da tempo stiamo perdendo posizioni. E con questo posizionamento infragilito l’Italia entra nello scontro titanico in corso sul futuro dell’automobile, in particolare dell’automobile a combustione interna, nell’assetto futuro della mobilità nella nostra società. Quella che è a rischio non è solo la posizione dell’industria italiana dell’automobile, ma più in generale quella europea. La transizione verso la mobilità elettrica e l’uscita forzata dal motore a combustione interna rischiano di spazzare via, a favore dell’Asia, uno dei pilastri della nostra economia. Potrebbe trattarsi di una vera propria lotta per la sopravvivenza, per alcune imprese e per i posti di lavoro collegati.In questo contesto a tratti esistenziale di scontro globale e epocale, almeno in termini di politiche ed assetti industriali, appare singolare che alcuni riconducano la radice dei problemi di casa nostra al tema della scarsa italianità del gruppo Stellantis. A parere di tali persone l’operazione Stellantis sarebbe in un qualche modo una acquisizione mascherata del gruppo italiano FIAT da parte di Peugeot PSA, con la creazione di un gruppo a controllo francese, che quindi avrebbe in termini di investimento più attenzione e “lealtà” nei confronti della Francia che dell’Italia.
Secondo questa chiave di lettura gli azionisti italiani di FIAT avrebbero in un qualche modo tradito il proprio Paese cedendo a stranieri le proprie aziende le quali ora verrebbero lentamente smontate. Un caso di capitalismo predatorio insomma.Questa lettura è però sbagliata. Se lo Stato francese è più influente è perché è un azionista diretto di Stellantis, quello italiano no. Una scelta diversa di politica industriale. Inoltre non coglie il fatto che tra i vari effetti della globalizzazione vi è stata la creazione e il progressivo rafforzamento di una classe di cittadini, che chiamano se stessi global citizen, i quali pur essendo italiani, francesi, inglesi o americani si sentono più parte di tale comunità internazionale, che della loro nazionale.
Quando esprimono scelte in merito a dove vivere, investire, pagare le loro tasse raramente decidono in base alla loro nazionalità (anzi spesso ne hanno più di una), ma piuttosto in termini di attrattività e competitività del Paese per se stessi e per i propri investimenti.Fanno parte di questa classe di global citizen i global manager delle grandi società internazionali, dei fondi finanziari, della cosiddetta burocrazia internazionale (Fondo monetario, Banca Mondiale e simili).Le famiglie principali azionisti di Stellantis si sentono, con ogni probabilità, sempre più parte di tale comunità internazionale allargata, piuttosto che italiani o francesi in senso stretto. Questo non è né un bene né un male. E’ semplicemente un fatto con cui l’Italia, se vuole proteggere la propria manifattura nazionale, deve fare i conti.
Discutere sul peso dell’italianità nel Consiglio di Amministrazione di Stellantis è futile oltre che, forse, un po’ provinciale. Bisogna invece concentrarsi sui motivi che rendono la costruzione di automobili meno conveniente nel nostro Paese rispetto ad altri.E questo non è ormai un tema di salari. Quelli che prendono i nostri lavoratori non sono ormai certamente alti. Anche loro stanno pagando la scarsa produttività del sistema. Fare impresa in Italia è ancora troppo complicato. Ci sono troppe regole, difficili e costose da implementare e a volte con benefici per il sistema che appaiono inferiori ai costi richiesti per il loro adempimento. Le imposte su chi produce reddito sono alte rispetto ai Paesi concorrenti e complicate da comprendere e gestire.Una politica industriale vera deve principalmente guardare alle viti e bulloni di come si fa e può fare impresa nel nostro Paese e, nel caso, anche decidere in quali imprese investire come Stato e in quali no. Non deve ascoltare chi si lamenta solo se gli investitori guardano altrove, ma agire per capire e attaccare le ragioni di fondo di tali scelte.