Banche e debito pubblico: il legame che Draghi non è riuscito a rompere
Nonostante gli sforzi la Bce non ce l'ha fatta a convincere gli istituti di credito a prestare denaro alle aziende. Ecco perché non è una buona notizia
I tentativi di rompere il vincolo fra banche e debito sovrano non hanno dato frutti. Nonostante gli sforzi, la Banca centrale europea non è ancora riuscita a risolvere uno degli squilibri più profondi dell’eurozona. In pancia agli istituti di credito dell’area euro ci sono quasi 3.000 miliardi di euro di bond governativi. È come se i giorni neri di Atene, Dublino, Lisbona, Roma e Madrid non siano mai passati. L’allarme lo lancia Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo. "Salvare le banche ha salvato l’euro, ma i costi nel lungo periodo sono totalmente incerti", scrive il fondo statunitense. Ma non è solo difficile determinare le conseguenze monetarie. Lo è anche valutare i rischi correnti, forse più elevati che fra il 2010 e il 2012, nel momento più drammatico per la zona euro.
L’ultimo rapporto di Pimco sull’area euro lascia poco spazio all’ottimismo. Secondo l’economista Andrew Bosomworth, il circolo vizioso fra bond governativi e banche è ancora elevato, come aveva già descritto il think tank Bruegel nello scorso novembre. Di sicuro, analizzando i database di Bloomberg e incrociandoli con quelli di Eurostat, c’è un’evidenza: la quota di debito sovrano detenuto dagli istituti di credito della zona euro è maggiore oggi rispetto al primo salvataggio della Grecia. Al 30 giugno scorso, il livello è stato di 2.900 miliardi di euro, circa un terzo del Pil dell’eurozona. Nel confronto con il maggio 2010, quando fu lanciato il primo programma di sostegno per Atene, ora le banche detengono circa 300 miliardi di euro di obbligazioni governative. In termini percentuali, circa il 9% del totale degli asset in pancia, cioè due punti in più rispetto al 2008, quando è fallita Lehman Brothers. Il livello, come prevedibile, cresce se si guarda ai sistemi bancari di Spagna e Italia.
A distanza di due anni dalla Global Investment Conference di Londra, quando il presidente della Bce Mario Draghi fece il celebre discorso del "Whatever it takes", nulla è ancora risolto . La fase più dura della crisi dell’euro è terminata, ma le asimmetrie rimangono. Molti di esse sono state introdotte proprio dalla Bce, quando lanciò i due round di Long-term refinancing operation (operazioni di rifinanziamento a lungo termine, o Ltro) fra il dicembre 2011 e il febbraio 2012, per complessivi 1.089 miliardi di euro. Le banche, specie quelle italiane e iberiche, furono costrette de facto a sostenere i rispettivi Paesi nelle aste di titoli di Stato, imbottendosi quindi di debito pubblico. A distanza di anni, lo squilibrio rischia di ripetersi con le Targeted longer-term refinancing operation (Tltro), le nuove stampelle per la fragile economia dell’eurozona. Invece che finire alle imprese, i finanziamenti erogati tramite le Tltro potrebbero essere di nuovo utilizzati per le obbligazioni governative. Tre le colpe: da un lato ci sono pochi vincoli posti sui prestiti verso il settore privato, dall’altro rimane elevato il tasso di fallimento delle Pmi in Spagna e Italia, mentre sullo sfondo ci sono i disinvestimenti sui prestiti degli istituti di credito, che continuerà ancora nei prossimi anni. Per una banca operante in un’economia precaria e falcidiata da insolvenze, meglio puntare sui magri ritorni promessi ora dal segmento governativo del mercato obbligazionario piuttosto che rischiare su quello dei finanziamenti corporate.
I pericoli, ricorda Pimco, non sono pochi. Se è vero che attualmente il clima sui mercati finanziari è positivo, è anche vero che nulla è per sempre. La politica monetaria accomodante delle banche centrali mondiali dovrà prima o poi terminare - la Federal Reserve dovrebbe essere la prima ad alzare i tassi d’interesse tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo - e l’impatto sull’economia globale è ancora ignoto.
In particolare, quale saranno le ripercussioni sui flussi di capitale diretti verso l’eurozona? Minore è la liquidità, maggiore è l’accortezza nelle scelte d’investimento. Più qualità e meno quantità. Il regime corrente, per il quale si privilegiano i bassi prezzi e (molto spesso) non i fondamentali, è destinato a concludersi entro i primi sei mesi del 2015, secondo la banca americana Morgan Stanley.
Uno dei principali problemi che impedisce di rompere il collegamento fra Stati e banche è l’assenza di un meccanismo che permetta un fallimento sovrano, spiega Pimco. Si prenda il caso di una crisi nel settore bancario di un Paese grande e con una marcata autarchia nel settore bancario. Un Paese, quindi, che può ricordare l’Italia, in cui gli istituti di credito domestici detengono ancora circa 400 miliardi di euro in debito sovrano su un circolante di circa 1.700 miliardi, il doppio rispetto a fine 2011. Una crisi politica, a livello macro così come a livello micro, potrebbe portare a una contrazione della fiducia degli investitori, che chiederebbero dei rendimenti più elevati sui titoli di Stato.
Sotto pressione andrebbero anche le banche di quel Paese, che in pancia hanno una elevata quantità di bond governativi. Da qui all’esigenza di nuovo capitale, il passo è breve. In caso di avversione da parte del mercato, o si effettua un bail-in o interviene lo Stato o si usano entrambi le vie. Una volta terminata l’emergenza bancaria, ci sarebbe quelle sovrana, più lenta ma anche più profonda. Ecco perché, secondo Pimco, la soluzione migliore sarebbe un sistema capace di gestire anche le insolvenze sovrane e non solo quelle bancarie. Un Paese affetto da una debolezza sul debito pubblico potrebbe infettare un sistema bancario fino ad allora sano. Quello che Pimco omette, tuttavia, è che un default sovrano avrebbe in ogni caso ripercussioni sulle banche domestiche. E, di conseguenza, anche sul sistema finanziario dell’intera area macroeconomica.
Quanto è vizioso il circolo in questione lo si capirà una volta terminato il Comprehensive assessment della Bce, l’esercizio di verifica di bilancio delle principali banche dell’area euro . Nel prossimo novembre si capirà quanto sarà efficace la fase uno dell’unione bancaria Ue e quanto sarà funzionale il meccanismo di supporto dello European stability mechanism (Esm). Gli investitori internazionali, come ha ricordato Natixis in un’analisi dello scorso giugno, non ci metteranno molto a testare la solidità del nuovo progetto europeo. Il timore maggiore, manco a dirlo, è che non sia solido a sufficienza.