Banche Popolari e Bcc, perché servono all'economia italiana
Il governo ha deciso di cambiare la natura di 10 grandi istituti di credito, trasformandoli in spa. Ma il modello della banca cooperativa resta da tutelare
Alla fine, ha vinto chi voleva la rottamazione delle banche popolari. Il governo Renzi ha infatti scelto di fare pochissimi passi indietro e di convertire in legge, a colpi di fiducia, il decreto presentato nel gennaio scorso che costringerà 10 grandi istituti di credito cooperativo italiani a trasformarsi in società per azioni (spa). A essere coinvolte in questo processo saranno le maggiori banche popolari del nostro paese, dal gruppo Ubi fino a Banca Etruria, passando per Veneto Banca, Bpm e Banco Popolare, solo per citarne alcune. Chi si opponeva ai piani dell'esecutivo ha avuto qualche piccola concessione ed è riuscito a far approvare alcune norme correttive rispetto al testo iniziale. A parte i dettagli, però, la sostanza non cambia: nei prossimi 18 mesi, le banche popolari che hanno un patrimonio sopra gli 8 miliardi di euro dovranno per forza di cose cambiare pelle, trasformandosi appunto in spa e abolendo il sistema del voto capitario. Si tratta, per chi non lo sapesse, di quel meccanismo che consente a ogni socio delle banche popolari di esprimere nell'assemblea degli azionisti un solo voto (ogni testa, un voto), indipendentemente dal numero di quote possedute.
Banche Popolari: cosa cambia in 5 punti
Queste novità in arrivo nel settore bancario italiano rappresentano senza dubbio una svolta epocale. Come tutte le svolte, però, la riforma delle popolari può essere vista da due prospettive diverse. C'è chi la considera un cambiamento salutare, atteso da anni. E' il caso per esempio di Luigi Guiso, editorialista del sito LaVoce.info e professore di economia all’Einaudi Institute di Roma. “Di fatto” ha scritto Guiso, “nelle banche popolari la struttura cooperativa e il voto capitario sono servite soltanto per perseguire le ambizioni di piccoli gruppi di controllo, per costruire dei piccoli imperi al riparo dalla possibilità di scalate”. Nei grandi istituti di credito interessati dalla riforma renziana, a detta di Guiso, era infatti rimasto ormai ben poco di quello spirito mutualistico che caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) il movimento cooperativo. Sulla stessa lunghezza d'onda del professore dell'Einaudi Institute si trovano oggi altri opinionisti come Salvatore Bragantini, ex-commissario della Condob ed editorialista del Corriere della Sera. Bragantini ha infatti definito la scelta del governo una “svolta necessaria” anche se, al posto di un provvedimento calato dall'alto, avrebbe preferito vedere un'autoriforma spontanea delle banche popolari, impedita negli anni dalla cecità dei loro gruppi dirigenti.
Un modello da difendere
Senza nulla togliere all'autorevolezza di Guiso e Bragantini, è bene però ascoltare anche l'altra campana, cioè l'opinione di chi non la pensa allo stesso modo e ha molte buone ragioni per dissentire. Gli economisti che hanno spezzato più di una lancia a favore del modello della banca cooperativa sono infatti ben 163, tra cui si possono citare per esempio i nomi di Gustavo Piga dell'Università Tor Vergata di Roma o Andrea Resti della Bocconi. In un appello in difesa delle popolari, questi studiosi hanno ricordato l'esistenza di una lunga sfilza di ricerche che dimostrano come il sistema del voto capitario non impedisca una gestione efficiente degli istituti di credito e come la coesistenza di banche organizzate in spa con altre banche orientate ai soci come le popolari sia cruciale “per preservare servizi finanziari ben funzionanti e inclusivi”. Non vanno dimenticati, poi, tutti i dati e le analisi che dimostrano come gli istituti cooperativi siano stati spesso capaci di garantire alle imprese maggiori finanziamenti rispetto alla media del mercato, oltre a possedere rating più alti, una patrimonializzazione migliore, un maggiore legame col territorio e il tessuto produttivo locale di riferimento.
Riforma delle banche popolari: ma il decreto che c'entra?
A queste voci si è aggiunta poi quella di un'associazione di categoria che il tessuto produttivo italiano (o almeno quello del Nord-Est) lo conosce bene. Si tratta della Cgia, l'associazione degli artigiani di Mestre, che ha ricordato alcune cifre difficilmente contestabili. Tra il 2011 e il 2013, durante gli anni della stretta creditizia, le banche popolari sono state le uniche ad aumentare i prestiti alle famiglie e alle imprese, con un incremento del 15% circa, contro una contrazione di quasi il 5% registratasi invece tra gli istituti organizzati in società per azioni.
Il destino delle Bcc
Il modello della banca di credito cooperativo e della banca popolare, insomma, non è affatto da buttar via o da riporre in soffitta come fosse un oggetto di antiquariato. Lo sa bene pure il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan, da cui sono arrivate nei mesi scorsi alcune rassicurazioni. Dopo aver cambiato pelle alle popolari italiane più grosse, il governo non farà invece la stessa cosa per l'universo delle banche di credito cooperativo (Bcc), che delle stesse popolari sono parenti strette: funzionano cioè con il medesimo sistema del voto capitario, pur avendo delle dimensioni assai più ridotte e un business più mutualistico, in quanto erogano il credito e i servizi soprattutto ai propri soci. “Per le Bcc non ci sarà una riforma ma basterà soltanto un'auto riforma” ha detto in sostanza Padoan, ponendo l'accento sulla necessità di favorire l'aggregazione tra alcuni istituti, oggi troppo piccoli per camminare con le proprie gambe. Il modello seguito potrebbe essere quello di una grande holding unica nazionale delle Bcc che, tuttavia, non piace tanto ai dipendenti. Agli inizi di marzo, per la prima volta dopo 15 anni, i lavoratori delle Bcc sono entrati in sciopero, anche perché i progetti di autoriforma prevedono la disdetta del contratto di lavoro nazionale e fanno aleggiare lo spettro di molti tagli agli organici. Se cambiamento ci deve esser, dicono i dipendenti, non può essere fatto a spese di chi sta dietro gli sportelli.