Blue dot economy, vantaggi e sfide dell'economia della posizione
Ci stiamo abituando ad avere di tutto il prima possibile, ovunque ci troviamo. Ma non mancano i rischi e i costi sociali
C’erano una volta le mappe stradali, praterie di carta tortuose da ripiegare, labirinti di vie, svolte, incroci e simboli oscuri come geroglifici. Prima di capire come arrivare a qualsiasi destinazione, la vera impresa era indovinare dove diamine ci trovassimo. La sfida non era giungere altrove ma, intanto, decifrare il punto di partenza. Gps e smartphone hanno ribaltato tutto, azzerando ogni complessità: basta lanciare applicazioni quali Google Maps per vedere una risposta istantanea, perché un puntino blu indichi in tempo reale la nostra posizione sullo schermo. Comodità vecchia, abitudine ormai consolidata per più di una generazione. Il fatto nuovo è che intorno a quel puntino blu oggi sta prosperando un’intera economia: la «blue dot economy». Una galassia di beni e servizi disponibili subito, senza che sia necessario muoversi o spostarsi perché sono accessibili nel posto in cui siamo o nei suoi immediati paraggi. O ci raggiungono il prima possibile.
È un fenomeno non misurabile per le sue svariate ramificazioni ma che cresce con esuberanza, distruggendo prassi e maniere tradizionali di vivere il quotidiano: non occorre più (o almeno non si pone come l’opzione unica) andare fino al negozio o al ristorante. Spesa e pasti arrivano a casa, in ufficio, all’indirizzo di un amico, un collega o un parente. Come il personal trainer al parco, il dog sitter mentre siamo dal parrucchiere, la lavanderia che ritira i capi per riportarceli stirati e profumati.
«Le mappe cartacee ci condannavano a un’evidenza: il mondo è un posto immenso e noi ne siamo una parte piccolissima. La tecnologia ha smantellato tale regola: ci fa sentire al centro di un mondo solo nostro» spiega Ken Hughes, considerato uno dei massimi teorici globali del comportamento dei consumatori. I quali, alla luce delle opportunità spalancate dal «blue dot», si aspettano di più. «Vogliono sentirsi speciali. Dal consumo di massa» dice Hughes «siamo passati alla personalizzazione geografica del servizio. Dall’attrattiva del possesso, al magnetismo dell’esperienza». Il che chiama in causa il secondo caposaldo di quest’economia: la condivisione.
Ecco le applicazioni per noleggiare per tratti e tempi brevi un’automobile, uno scooter, una bicicletta o un monopattino. Tutte ubbidiscono al medesimo principio: dal telefono vedo dove sei e ti dico quali mezzi sono a pochi passi da te. Uber, per esempio, di alternative ne sta piazzando sempre più sotto il suo ombrello, includendo barche (in Croazia) ed elicotteri (da luglio, tra l’aeroporto Jfk di New York e Manhattan). Le frontiere, d’altronde, si spalancano in base alla fantasia e il senso d’inventiva di startupper e grandi aziende: la piattaforma di consegna di cibo Deliveroo, da giugno, è arrivata in località turistiche italiane come Quartu Sant’Elena, Jesolo, Lido di Camaiore o Viareggio, per sfamare gli appetiti vacanzieri di pigroni in infradito. Uala scova, raccoglie e consente di prenotare barberie, trattamenti spa e saloni di bellezza nei paraggi (nella app il puntino è verde, ma la variazione cromatica non inficia il concetto); con ProntoPro si scoprono idraulici, imbianchini, elettricisti, professori per lezioni private o personal trainer presso la propria posizione; i dog sitter sono su Rover, mentre con Dottori.it si scovano ginecologi, dermatologi, ortopedici, dentisti, all’occorrenza andrologi, disponibili nel loro studio a distanza pedonale. Tutto è intorno, su richiesta.
I casi sono sterminati e negli Stati Uniti stanno spingendo l’idea persino più in là. Perché andare fino al distributore a fare rifornimento? A San Francisco, Los Angeles e Dallas c’è Booster, che con i suoi camioncini itineranti sazia di carburante le automobili dei clienti in qualunque parcheggio. Mentre Amazon, tramite una partnership con vari costruttori, può già recapitare i suoi pacchi nei bagagliai delle macchine di ultima generazione. L’opzione si chiama «In-car delivery» e funziona anche il giorno stesso dell’ordine. Così, mentre si è in vacanza, si possono trovare costumi da bagno, generi alimentari non deperibili e tutto ciò che si è scordato d’inserire in valigia direttamente nel veicolo lasciato davanti all’albergo. O se si è dimenticato un anniversario o un compleanno, con pochi tocchi sul telefono ci si può far portare un regalo nell’auto davanti al ristorante senza che l’amata o l’amato si accorgano della nostra sbadataggine. Basterà assentarsi un attimo fingendo di andare in bagno per ritirare il dono. Per non citare le decine di start-up specializzate che garantiscono fusti di birra, snack, frutta e verdura fresca ovunque (anche in una piazza, per una festa improvvisata), entro sessanta minuti dall’inoltro dell’ordine.
Oltre al gusto di andare, abbiamo perso la pazienza di aspettare: vogliamo tutto, subito e dappertutto. La convenienza della blue dot economy poggia su un senso diffuso di capricciosa arroganza. E scava grosse problematiche logiche e logistiche. Com’è intuibile, questo perenne transitare di camioncini, motorini e altri frettolosi veicoli, cova un potenziale inquinante spaventoso. Negli Stati Uniti (ma il senso è universale), fino a 35 volte di più se il mezzo di un corriere espresso deve uscire per una consegna sola, anziché per tante nella medesima area. Il calcolo è stato pubblicato pochi giorni fa sul sito dalla CNN all’interno di un articolo il cui titolo dice tutto: «La dipendenza dell’America dalle spedizioni assurdamente veloci ha un costo nascosto». E di dipendenza è giusto parlare, facendoci un esame di coscienza minimo: consideriamo ormai una mancanza di prontezza di un sito di e-commerce (tre giorni per evadere un ordine anziché tre ore) come un elemento squalificante, di debolezza, non di razionalizzazione. E invece: «L’intervallo di transito ha una relazione diretta con l’impatto ambientale» ha spiegato all’emittente americana Patrick Browne, direttore della sostenibilità globale del corriere Ups. «Io non penso» ha aggiunto «che il consumatore medio capisca il diverso impatto ambientale di ricevere qualcosa tra due giorni anziché domani. Più tempo abbiamo, più possiamo essere efficienti».
Ma il tempo, nell’economia del puntino blu, tende allo zero. In un tagliente articolo dello scorso mese di Forbes, «La guerra delle consegne è spericolata e vana», si chiamano in causa le vittime predestinate di tanta accelerazione schizofrenica: accanto a noi stessi, investiti da una probabile eco-calamità, la frenesia travolge i lavoratori che devono confezionare i pacchi, i fattorini con contratti spesso precari o inesistenti che hanno il compito di consegnarli, i professionisti che, per essere competitivi, si trovano a dare appuntamenti il prima possibile. Estendendo le loro agende al fine settimana, saturandole la sera e la mattina presto, in un fiatone d’ansia generale non indispensabile.
Puntare il dito rischia però di ridursi a un esercizio di retorica, perché la «blue dot economy» pare il modello destinato a imporsi. Lo spiraglio all’orizzonte è che la tecnologia, così come l’ha resa possibile, la renda sostenibile. L’abbondanza di alternative per muoversi spinge a disertare i mezzi pubblici? Allora bisogna puntare su flotte elettriche, per non soffocare di smog le già boccheggianti strade cittadine. A confezionare i pacchi, come in parte già avviene, saranno braccia robotiche anziché umane; a consegnarli provvederanno droni e camioncini a guida autonoma che funzioneranno a batteria. Certo, il guadagno in termini d’impatto ambientale, a parità di celerissima efficienza, diventerà un costo sul fronte della perdita di posti di lavoro. Ma qui si ricade in un’altra nuova economia, quella dell’automazione, i cui contorni restano ancora tutti da definire. (Twitter: @MarMorello)