Borghi: "I Minibot non sono una nuova moneta"
Intervista con Claudio Borghi, l'inventore dei Minibot che fanno discutere (e che sono stati bocciati anche da Giorgetti)
Onorevole Borghi, questa settimana proviamo a spiegare la guerra dei Minibot? Nessuno meglio di lei può farlo.
(Sorride). Il mio primo video sui Minibot è del 2012. Il primo articolo era apparso un anno prima, nel 2011, su Il Giornale. L’unica differenza è che ancora non avevo immaginato l’aspetto.
Quando le ho fatto la prima intervista sui Minibot, nel 2016, erano considerati una curiosità eccentrica. Oggi ne parla il governatore della Bce.
Perché abbiamo spiegato al Paese per quale motivo sarebbero un’ottima soluzione a un grande problema: pagare subito tutti i debiti che lo Stato ha con i suoi cittadini.
La considera una emergenza.
Senza dubbio. Per evitare la follia di chi fallisce pur avendo crediti.
Però Draghi denuncia i Minibot come un grave pericolo.
(Sorride). Io, per vocazione, sono come Mister Wolf di Pulp Fiction: provo a risolvere i problemi. È facile dimostrare che i Minibot fanno questo.
Spieghi come e quando le venne quell’idea e ci aiuti a capire.
Otto anni fa iniziava la battaglia dello spread. E nell’estate 2011 Berlusconi stava facendo la cosa sbagliata: le concessioni all’Europa che hanno portato al rigore e al governo Monti. Io, invece, proponevo idee su come contrastare lo spread.
Perché fu la cosa sbagliata?
Ad agosto raddoppiarono le tasse sui risparmi, aumentarono i bolli, l’Iva e furono inventate le prime clausole di salvaguardia. Il resto lo fecero Monti e la Fornero.
Si disse che fosse inevitabile.
Balle. Io stesso ero stato elettore di Berlusconi. Il suo consenso politico fu distrutto da quelle scelte.
C’erano anche delle differenze, rispetto a oggi.
Il proplema di fondo era lo stesso: i titoli di Stato che innescavano la crisi venivano venduti perché non c’era nessuna garanzia della Banca centrale.
Il famoso «Bazooka» che nacque dopo, proprio come risposta a quella crisi.
C’era paura sui mercati, e non c’erano garanzie, se non altro perché pochi mesi prima avevano fatto fallire la Grecia.
Vediamo le differenze?
La prima differenza è il consenso politico. Dopo il caso Ruby, Berlusconi non era un leader forte e legittimato, anche da un voto, come lo è Salvini oggi.
E poi?
La nostra economia era molto più fragile su un punto decisivo.
Quale?
Il deficit commerciale. Infatti, avevamo un «doppio deficit». Importavano più di quello che esportavamo. Questo voleva dire che i soldi stavano uscendo dall’Italia. Oggi, invece, il saldo è positivo. Attiriamo valute straniere.
All’epoca aveva senso temere il rischio di fallimento?
Il default del titolo sovrano è un mostro creato dall’Ue.
In che senso?
Vede, nessuno può avere dubbi - per esempio - sul rischio default della Danimarca. Non esiste la possibilità.
Perché è un’economia forte?
Mannò. Perché al massimo posso temere che la corona si svaluti, non che manchi: la stampano loro.
L’economia italiana del 2011 era fragile, ma anche quella di oggi lo è.
Noi esportiamo più di quello che importiamo. Molti miliardi di valuta straniera entrano ogni giorno in Italia.
Questo non ci mette al riparo da qualsiasi rischio.
All’epoca il default sarebbe stato improbabile: oggi sarebbe insensato. Se anche - per assurdo - uscissimo dall’euro non avremmo mai il 50 per cento di svalutazione della nostra moneta.
Tuttavia lo spread ha toccato quota 300.
Una fiammata, dovuta alla speculazione del momento sui mercati.
Proprio lei li chiama «speculatori»?
Io ho lavorato in quel mondo. E li chiamo speculatori. Tecnicamente sono operatori che guadagnano così.
Cioè?
Traggono profitto dalle fluttuazioni del mercato su un titolo. Se vuole li chiami trader, ma cambia poco. Fanno quello.
Si dice: visto che il nostro debito è nelle mani delle banche italiane siamo più esposti.
Non è assolutamente vero. Più il debito è domestico, più a rigor di logica, dovremmo essere sicuri.
Perché?
Ci pensi. Per paradosso, se tutto il debito fosse italiano, tutti i famosi interessi aggiuntivi che paghiamo su quei titoli diventerebbero reddito diffuso distribuito in Italia.
Però le nostre banche sono più deboli, anche perché hanno in pancia tanti titoli di Stato.
Non è assolutamente vero. È propaganda.
Lei non legge tutte le grida di allarme di questi giorni?
Chi si preoccupa dello spread non dovrebbe fare altro che comprare titoli. Non solo perché stabilizzerebbe la fluttuazione, ma perché ci guadagnerebbe.
Lei lo fa?
Quando ho liquidità, la metto lì. Gli unici acquisti in titoli di Stato che ho fatto da quando sono stato eletto sono titoli italiani.
Claudio Borghi è senza dubbio l’uomo della settimana. Se non altro perché, nel momento in cui tutti discutono dei Minibot, lui che ne è l’inventore ha un vantaggio competitivo. A far entrare in agenda il dibattito sui cosiddetti titoli di Stato di piccolo taglio è stato il voto unanime (per errore del Pd) del parlamento italiano. Che hanno innescato la condanna preventiva di Draghi: «Sarebbero debito aggiuntivo». Il responsabile della Lega non ci sta, e spiega perché per filo e per segno. Non prima di aver raccontato la sua carriera iniziata dal nulla nella Borsa di Milano.
Da dove parte la storia onorevole Borghi?
(Muove le mani, si mette a fare segni con le dita). Guardi le faccio vedere. La mia vita comincia con questi gesti.
Sembra il linguaggio dei sordomuti. Come lo ha imparato?
(Ride). Nooo!!! È il codice gestuale dei borsisti. Roba del secolo scorso. Il mio primo lavoro.
Prima che la Borsa diventasse digitale funzionava tutto così, come in Wall Street?
Tutto doveva essere comunicato con una sola mano.
Perché?
Perché nell’altra dovevi avere taccuino e matita. Pensi che era severamente vietata la penna, soprattutto la biro!
Perché?
Per non macchiare le giacche.
Le proprie?
Mannò! Quella degli altri. Hai presente che ammucchiate quando si contrattava un titolo?
Il giovane Borghi inizia come fattorino di Borsa a 18 anni. Perché?
Volevo guadagnare subito.
Avevate bisogno in famiglia?
No, volevo essere indipendente io. Mio padre era un impiegato Pirelli.
E cosa faceva?
Progettava camere d’aria. Come potrà immaginare lì era un lavoro importante.
Aveva idee politiche?
Votava repubblicano, forse influenzato da mia madre, che aveva grande curiosità e passione per la politica.
Lei cosa faceva?
Era contabile, poi da quando sono nato, mamma a tempo pieno. Casalinga si diceva. Stiamo parlando della piccola borghesia lombarda. Onestà come valore cardine, una grande industria che ci rendeva orgogliosi, e un tempo meraviglioso: la fine gli anni Sessanta. Ero figlio unico.
Che studi ha fatto?
Scuole statali medie nel «ridente» paesino di Carnate. Poi il liceo a Vimercate.
Faceva politica?
Rappresentante di classe fin dai primi anni, poi nel collettivo della scuola. Mi chiamavano «Saruman» perché convincevo le persone a fare le cose.
Come lo stregone cattivo de Il signore degli Anelli?
Proprio lui.
E all’epoca era di sinistra?
Mai stato. Dicevano che ero di destra, ma non era esatto. Ero semplicemente libero, non seguivo il branco.
Esempio?
Nel collettivo studenti dominava la sinistra classica, quella con la kefiah palestinese d’ordinanza al collo.
E cosa dicevano?
Un giorno per perorare la causa di uno sciopero uno di loro grida: «Noi saremo gli operai del domani!».
Aspirazione di classe al contrario.
Infatti, si alza la mano e un altro dice: «Un mument! Mi andaria anca a stringere i bulloni alla Falck... Ma mi cunsider un dirigent!». Diceva: «Io sono dirigente». Erano iniziati gli anni Ottanta, il riflusso.
Primo voto del giovane Borghi?
A 18 anni: alle Europee, e scelgo Enzo Bettiza, nelle liste del Psi.
Come mai proprio lui?
Perché leggevo i suoi fondi sul Corriere.
All’università lei fa i test per entrare alla Bocconi, ed è ammesso tra i primi.
Ero bravino. L’ho fatto per me e per altri dieci che sedevano vicino a me e forse sono entrati grazie a me. Ma io, subito dopo, decido di andare alla Cattolica.
Era come buttare un biglietto di ingresso nelle élite. Follia?
Lo so. Era l’oggetto del desiderio dei giovani in carriera. Ma rinuncio per fare il fattorino in Borsa.
Perché mai?
Avevo fretta di fare. La Cattolica era l’unica università che faceva i corsi pomeridiani. E mi hanno dato persino un milione di lire per il miglior test! Era perfetto per me.
Lei studiava e lavorava.
Ci ho messo un po’, ma ho preso 110, miglior laureato del mio corso, premio Agostino Gemelli.
Cosa le piaceva nel fare il fattorino a Piazzetta Affari?
Correvo dall’operatore al recinto delle grida e viceversa. Si chiamava «mercato gridato» e lo era in senso letterale. Adrenalina pura, un mondo magico in cui si cresceva in fretta.
Una cosa che le piaceva?
Tutto era facile da capire. In fondo è come un mercato. Se c’era folla, voleva dire che un titolo stava salendo. Io facevo la spola portando i titoli di cassa, iniziando a girare di prima mattina.
E come è cresciuto?
Un giorno chiudi un’operazione. Un altro, anche se non si sarebbe potuto ma era tollerato, sostituisco il collega... Mi allargo gradualmente.
Il primo salto?
Mi affidarono il Terzo mercato, il luogo dove vengono trattati i titoli non quotati. Ero passato dall’altra parte della scrivania. Correvo con i biglietti delle offerte, tornavo a casa la sera e da solo, in camera, mi esercitavo su quei segni convenzionali, allo specchio.
Un mondo incredibile.
Miliardi di affari. E tutto scritto a grafite. A vent’anni guadagnavo quasi due milioni e mezzo di lire al mese.
Il primo terremoto nel 1991: la Borsa diventa digitale.
Tutti quelli che non dormivano, se sapevano toccare un computer, fecero una carriera stupefacente.
Per esempio lei.
La Deutsche Bank mi fa un contratto di 81 milioni di lire. Piu 35 di bonus. Mi sentivo un re. E avevo solo 24 anni.
Dopo solo due anni un altro balzo.
Divento director di Merrill Lynch. Supero il muro dei 100 milioni annui.
I tedeschi la rivogliono.
È così torno a Deutsche Bank come responsabile azionario Italia.
E a questo punto diventa ricco.
Non esageriamo. Ma nel 2005, quando Visco pubblica i redditi di tutti gli italiani io dichiaravo 540 mila euro. Scopro che tutti quelli di cui sapevo con certezza che erano pieni di soldi dichiaravano meno di me.
Possibile?
Una grande lezione sulla vita. Che spiega ancora oggi perché serve la Flat tax.
Cosa c’entra?
Chi guadagna cifre folli scarica su società, detrae, non è tassato. Il vicino sopra di me, con yacht e villone, in quella lista era nullatenente. I milanesi straricchi e di sinistra erano tutti a zero. Possibile?
La Borsa per lei era stata una via di crescita inimmaginabile.
Ero additato come ricco, ma il mio netto era 250 mila euro. È tanto, ma non ci paghi lo yacht. Ecco perché la Flat tax fa guadagnare gli onesti e chi merita.
La sua vetta?
Gli ultimi anni di lavoro: solo di bonus incassavo sopra il mezzo milione. Tutto dichiarato, ovviamente.
E poi?
Dopo tre anni mi ritiro.
Voleva vivere di rendita?
Anche. Avevo due bambini piccoli. Non mi interessava diventare uno zio Paperone trascurandoli. Ma soprattutto volevo fare quel che mi piaceva. Avevo ciò che mi bastava per la vita, ero libero.
E quindi?
Mi piace molto spiegare ai ragazzi. Insegnavo alla Cattolica come professore incaricato. Prima lezioni saltuarie. Poi mi propongono un corso. Insegno sia «Intermediari finanziari» che «Aziende di credito» e, infine, «Economia dell’arte», un mio pallino.
Quegli studenti però li abbandona.
Li lascio con dolore quando divento responsabile economico della Lega.
Si sposa con Giorgia Fantin.
Quando ancora lavoravo. Lei seguiva la gestione eventi di una banca d’affari, oggi è una famosa wedding planner. Nozze celebrate il 9-9-99!
E poi diventa editorialista de Il Giornale.
Nel 2006 c’è il governo Prodi-Padoa Schioppa.
E che c’entra?
Sul bilancio dello Stato raccontavano balle. Ricordo un capannello di professori indignati, all’università. «Bisognerebbe dirlo!».
E lei?
Ci provo. Chiamo il centralino de Il Giornale: «Mi passa il caporedattore del politico?». Risponde lui: era Alessandro Rocchi, che diventerà un mio amico.
E Rocchi?
Mi ascolta supito, ma mi prende sul serio. Mi organizza un appuntamento con un giovane direttore, Maurizio Belpietro. Forse lo conosce.
Mi pare di averlo sentito. E cosa le dice Belpietro?
«È tutto molto interessante. Scriva e noi la pubblichiamo».
Come accadde?
Mando un primo pezzo. È così duro che lo immagino cestinato. Invece il giorno dopo scopro che il direttore mi ha messo in prima pagina. Il primo di 150 articoli!
Ed è così conosce anche Salvini.
Questa è bella. Era l’estate del 2013, avevo scritto sull’euro. Non avevo mai visto Matteo, all’epoca un semplice eurodeputato di un partito a pezzi. Mi chiama all’una di notte.
Cosa le dice?
«Sono Matteo Salvini. Lei ha delle idee sull’euro che mi interessano. Mi piacerebbe incontrarla».
Gli ha attaccato il telefono in faccia?
No. Ho risposto: «Domani le va bene?».
E come andò?
Ci vediamo. Simpatia istantanea. Gli ho fatto uno spiegone gigante sull’euro: ha capito al volo. Siamo diventati amici e compagni di battaglia.
Lei aveva votato Forza Italia. Perché sceglieva di scommettere su un partito che era al minimo storico?
Ho scommesso su Salvini. Come vede non era un azzardo.
Perché lo ha fatto?
Era l’unico che mi aveva dato retta. Nessuno mi aveva mai chiamato. E io avrei lavorato gratis per mettere alla prova le mie idee.
Voleva candidarsi?
No, ero più ambizioso: non pensavo di fare poltica, mi interessava che le mie idee passassero.
Perché con la Lega?
Mi invitavano anche quelli del M5s ai loro convegni. Andavo, parlavano tutti, ma non c’era una linea. Salvini invece sceglieva.
E così lei scrive il libretto verde economico della Lega.
In Basta euro c’è ancora dentro tutto. Oggi aggiungerei due cose, ma non c’era nulla di sbagliato. Spiegava come uscire dalla moneta europea.
E oggi ha rinunciato?
No. Ma dopo la vittoria di Macron sulla Le Pen la nostra strategia è cambiata.
In che senso?
Siamo gente seria e realista. Non si può combattere questa battaglia ora, e per di più da soli.
Quindi non si combatte più?
Al contrario. Ora, come primo partito europeo, potremo costruire un sistema di alleanze credibile intorno a questo progetto. Ma non è all’ordine del giorno. A meno che...
Cosa?
A meno che eventi traumatici - che noi non vogliamo - si verifichino e non ci costringano a difenderci.
Sta cercando un casus belli?
Al contrario. Vorrei evitarlo a ogni costo. Ma so che può verificarsi. E se la nave dove ti trovi rischia di affondare, è bene avere le scialuppe a bordo.
Onorevole Borghi, la prima accusa della Bce è questa: i Minibot sono una moneta parallela.
Falso. Non c’è obbligo di prenderli. Quindi non sono moneta.
Voi fate l’esempio dei buoni pasto.
Ma non solo. Immagini la sua carta di credito. Immagini i suoi assegni. Circolano, ma possono anche non essere accettati. Con i Minibot sarebbe lo stesso.
Seconda obiezione, illustrata per esempio da Tito Boeri: c’è il rischio che si svalutino, fino al 50 per cento.
Questa è davvero una fesseria, se io consento di pagare le tasse con i Btp. È il legame con il pagamento delle tasse che àncora il valore del titolo a una conversione condizionata ma certa. E questo impedisce ogni svalutazione.
Non può escludere che ci sia una svalutazione rispetto all’euro.
Io sono certo che non ci sarebbe.
Ma ipotizzi che ci sia, e che sia del 10 per cento.
Bene. Quando il cittadino X, alla fine del ciclo, andasse a pagare 10 mila euro di tasse avendo speso 90 mila euro di Minibot, quel 10 per cento che risparmia sarebbe un premio per chi dà fiducia allo Stato. Un meccanismo virtuoso, dunque.
L’obiezione di Boeri ipotizza che la svalutazione sia molto più alta.
Sulla base di che? Se lo Stato li ritira a valore pieno, come possono valere di meno? Ho letto quel che dice e mi fa pensare: Boeri non è uno scappato di casa. O è totalmente disinformato oppure devo dubitare della sua intelligenza.
L’obiezione di Draghi è più seria. Si tratta di una nuova moneta, e dunque è vietata dai trattati.
Ripeto. La cosa che definisce la moneta è l’obbligo di accettarla. Per questo la carta di credito non è una moneta. Un assegno non lo è, anche se lo si può usare per pagare.
Seconda obiezione di Draghi: si tratta di nuovo debito.
Qui si arriva a un grave paradosso delle regole europee.
Quale?
Il debito calcolato per i criteri europei è esclusivamente quello liquidato.
Provi a spiegarlo.
Sei un Comune. Ti serve un idraulico per riparare una perdita in una scuola. Fai una gara, chiami un idraulico, autorizzi una spesa di mille euro.
Bene.
Per l’Europa finché non lo paghi quel debito non esiste.
Anche se è già nel nostro deficit?
Sì, ma non c’entra. Se però emetto un Btp per pagare quei mille euro, il debito emerge.
Un meccanismo perverso.
Siccome nel momento stesso in cui lo emetto ho il debito, la via che sceglie la Pubblica amministrazione è semplice: non pagare.
Quindi se il Minibot non è la soluzione giusta che si fa?
Allora Draghi dovrebbe dire esplicitamente: vogliamo che non paghiate i fornitori, così quel debito non emerge.
Invece il Minibot che effetto ha secondo lei?
Se pagassi con 50 miliardi di Btp normali non sarebbe la stessa cosa dal punto di vista contabile.
Perché?
Il Minibot sarebbe classificato credito fiscale, non diventa subito nuovo debito.
Ma se poi il Minibot inizia a circolare, con i suoi biglietti, può creare inflazione.
Magari avessimo un po’ di inflazione! Aumenta la domanda interna. Era uno degli obiettivi economici della Bce!
Altri effetti positivi?
La spesa con i Minibot concentrerebbe gli acquisti sugli esercizi di prossimità. Non ci compri un aspirapolvere su Amazon. I Minibot girano.
Dicono: il salumiere non li prenderebbe.
Perché non dovrebbe? Ci pagherebbe le tasse!
Moscovici sostiene: i soliti trucchi italiani per non pagare.
Noi non solo paghiamo i nostri debiti, ma finanziamo l’Ue.
L’ultima obiezione, quella che fa più paura. Il Minibot prepara l’uscita dall’euro.
Perché pur non essendo moneta è un mezzo di pagamento alternativo? Allora vietino le carte di credito e i buoni pasto.
Onorevole Borghi, lei sa bene che se si uscisse dall’euro nessun Paese potrebbe sopravvivere con i buoni pasto usati come circolante!
Lei immagini che un giorno ci sia qualcuno che ci fa uno scherzetto e ci limita, in Italia, i prelievi dei bancomat a 50 euro al giorno.
Perché dovrebbe farlo?
È già accaduto, accadde in Grecia ai tempi del referendum di Tsipras.
Quindi può verificarsi ancora?
Esatto. Se qualcuno dovesse pensare a una simile aberrazione, il fatto che ci sia un deterrente non è un bene?
Cinquanta miliardi di titoli in circolo in forma di banconota lo sarebbero?
Secondo me, sì.
Dicendo questo lei aumenta quei sospetti, allora.
No. Io parto dall’idea di pagare i debiti. Lo aveva progettato Corrado Passera. E anche Pier Luigi Bersani: lì chiamavano Bersani Bond. Nessuno pensava che lui volesse distruggere l’euro.
Altra obiezione di Boeri: è una patrimoniale occulta.
Questa è particolarmente cretina. Abbiamo detto che se si svalutassero, diventerebbero un premio fiscale. È il contrario, semmai.
Obiezione seria, degli imprenditori: «Io ho un credito, voglio soldi veri».
E infatti noi non obblighiamo nessuno. Se non li vuoi, non li chiedi. La politica di questo governo è dare opzioni senza convincere nessuno. Vuoi Quota cento? Vuoi il Reddito? Vuoi i Minibot? Prego.
Come si limita il rischio di ritrovarsi con una montagna di carta svalutata?
Mettiamo due limiti: uno nella emissione, diciamo 50 miliardi. E l’altro nella quota massima ottenibile: 25 mila euro a persona.
Con che vincoli?
Nessuno. Hai un credito con lo Stato? Lo incassi.
Come ha preso forma l’idea?
Poco dopo il primo convegno dei sovranisti a Pescara, organizzato da Alberto Bagnai. Pensavo: cosa posso portare in quella sede di innovativo? Misi a punto i dettagli e presentai l’idea.
E fu così che nacque la proposta di usarli anche per gestire un sistema di pagamento alternativo?
Esatto: i miei video nascono così. E per questo sono associati all’uscita dall’euro. Ma null’altro stabilisce un legame tra Minibot e uscita dalla moneta unica. Dopo quel convegno non ne ho parlato più per anni.
Perché?
Sono andato a verificare le alternative. I certificati di crediti fiscale, la moneta positiva.... Tante idee, anche brillanti. Cose teoricamente efficaci, ma vietate dai trattati.
Quando la proposta arriva a questa forma?
Quando decidiamo di farne un argomento di campagna elettorale.
E nascono anche le banconotine atraverso il voto in Rete.
Ah ah ah! Ci mettemmo a lavorare sul lay out. Tardelli banconota da 5, Falcone e Borsellino 10. Fallaci 20, Pertini da 50, Mattei da 100, Toscanini da 200. D’Annunzio da 500....
Mattei, per esempio, prevalse nel voto popolare su Olivetti, Ferrero e Agnelli.
E il grido di Tardelli sulla vittoria degli Abbagnale, lo scatto di Mennea, la borraccia di Coppi e Bartali.
Vi accusano anche di rubare a Tardelli la sua immagine.
Ridicolo. Scrissi a Tardelli che mi rispose: «Ne sono onorato». Ho letto da poco una sua intervista cult: «E se ai tedeschi non piacciono è perché hanno ancora paura». Mitico.
Vi accusano di averli introdotti in modo subdolo.
Questa è follia pura. Ne abbiamo parlato per tutta la campagna elettorale. E poi li abbiamo messi nel programma di governo. Più trasparente di così! Si vede che non sanno leggere.
Quindi lei conferma che li farete?
Certo, dobbiamo farli.
Ma quando? Nel tempo, passate le polemiche? Dopo l’addio di Draghi?
Il momento giusto è con la prossima legge di bilancio, con la Flat tax. n
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