Sterlina-Brexit
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Economia

Brexit: c'era una volta la sterlina

La valuta inglese è in caduta libera e questo spinge investitori stranieri a fare grossi acquisti a Londra, compresa la Borsa

da Londra

Una mattina di settembre a Londra, il tempo è ancora mite. Ormai le vacanze sono finite, tutti sono tornati al lavoro, ma Oxford Street pullula di turisti. E la scena è sempre la stessa: gente che cammina con le mani piene di sacchetti. Mai come quest’anno Londra è stata invasa dai visitatori. La sterlina debole fa fare il pieno soprattutto per chi viene con gli euro nel portafoglio.

Tra i primi a fare outing, Primark: la catena irlandese di abbigliamento low cost, una sorta di Zara britannico, ha annunciato conti record grazie al boom di turisti. Ma lo shopping grazie all’euro forte è poco più che folklore, roba che va bene per i titoli dei tabloid. Altri fenomeni ben più profondi e strategici stanno montando: la mini sterlina ha fatto cadere una grossa diga. Il cambio, infatti, era uno scudo per difendere il Paese dall’aggressività straniera. Ora invece il Regno Unito è sotto assedio. La Cina ha dato addirittura scacco alla Regina: la Borsa di Hong Kong, un tempo colonia britannica d’oltremare, si è lanciata in una scalata da 30 miliardi di sterline al London Stock Exchange, la Borsa di Londra, uno dei centri di potere del Paese e la roccaforte della finanza in Europa, il cuore del capitalismo occidentale.

Le scosse telluriche potrebbero farsi sentire anche in Italia: la Borsa di Londra è proprietaria anche di Borsa italiana che, seppur piccola, ha in pancia un ganglio vitale del Paese: la piattaforma Mts, il sistema di scambio e vendita dei titoli di Stato, ossia il debito pubblico del Paese. E chi ha in mano il debito di una nazione, controlla quella nazione.

Bisogna riavvolgere il nastro del tempo a quattro anni fa per capire cosa sta accadendo. Nell’estate 2015 la moneta tonda di metallo con l’ormai iconica effige di Elisabetta II schiacciava tutti: ci volevano 1,5 euro per comprare un pound, i massimi da quando esiste la divisa unica del Vecchio continente. Londra, una città carissima e inavvicinabile per un turista; lo shopping, un lusso proibito riservato ai veri ricchi. Ma, soprattutto, l’Inghilterra era un mercato off limits per l’investitore straniero: la sterlina era una diga naturale. Non è un caso che l’Inghilterra si sia ben guardata dall’aderire alla moneta unica: mentre tutti gli altri Paesi rinunciavano alla sovranità monetaria, si teneva il suo pound, molto più forte. Almeno fino a tre anni fa: dopo il referendum del 2016, che ha sancito l’uscita dalla Ue, la sterlina ha iniziato a perdere terreno, fino al crollo di inizio estate con l’arrivo di Boris Johnson che ha promesso una Hard Brexit, scenario che spaventa mercato azionari e finanza; e dunque si riflette sul cambio.

Ma non spaventa gli investitori stranieri che anzi, approfittando del mini pound, partono all’assalto di aziende e pezzi di Paese prima inavvicinabili. Nella City il rischio invasione è chiaro a tutti. A lanciare l’allarme Cyrus Kapadia, il nuovo capo della banca d’affari americana Lazard: la Gran Bretagna sarà più vulnerabile ad attacchi stranieri e lui ne sa qualcosa visto che ha assistito il mega fondo americano Blackstone nell’acquisto della Merlin entertainment, proprietaria dello storico museo delle cere Madame Tussauds e della famosa LondonEy, la ruota panoramica. «Oggi il Paese è un’attraente opportunità» ha dichiarato al Financial Times. Detto, (già) fatto. Un altro colosso americano, la Hasbro, il numero due al mondo dei giocattoli (tra cui lo storico Monopoly) si è comprato i cartoni animati di Peppa Pig. E sempre la Cina mesi fa ha messo le mani sui pub inglesi: con un’offerta da 4,6 miliardi Victor Li, il figlio del magnate Li Ka Shing, l’uomo più ricco di Hong Kong e patron della compagnia telefonica 3 in Europa e anche di Wind in Italia, ha annunciato l’acquisto di Greene King, la catena di pub più grande del Regno Unito con 3.200 locali in gestione.

Difficile distinguere tra propaganda e rischi effettivi perché l’Inghilterra è sempre stata aperta ai capitali stranieri e lo stesso mondo della finanza che oggi grida all’invasione è lo stesso che fino a ieri salutava con favore l’ingresso di soldi esteri. Ma capitali stranieri significa anche un padrone straniero. Il bicchiere può essere sempre o mezzo pieno o mezzo vuoto. Di certo all’Inghilterra l’invasione di capitali esteri, almeno sulla carta ed entro certi limiti, non fa paura, anzi la cerca. Londra guarda a Riyad e Pechino per sostituire la Ue come mercato una volta che sarà uscita dall’Europa. Ma il disegno di un Impero 2.0, o di un nuovo Commonwealth, rischia di sfuggire al controllo. Londra è finita sotto assedio, schiacciata tra la Brexit e le mire di quegli stessi stranieri. L’Inghilterra è oggi un Paese bloccato, dove non c’è più un parlamento, chiuso fino a metà ottobre da Johnson con un’astuta forzatura istituzionale, ma dove però non c’è nemmeno lo stesso primo ministro, sconfitto dall’opposizione a Westminster.

In questo vuoto di potere, mentre Londra è sull’orlo di un precipizio sconosciuto chiamato Hard Brexit, gli stranieri si sono lanciati all’assalto dei centri nevralgici inglesi. Un Paese (troppo) aperto rischia di finire fagocitato dai mega capitali globali: lo scenario è chiaro allo stesso Johnson che, se pure uscito malconcio dalla lotta in parlamento, ha subito alzato le barricate contro la ex colonia: la Borsa di Londra non si tocca. Adam Smith era britannico: il libero mercato è giusto, ma gli interessi nazionali si difendono con le unghie e con i denti. Insomma, benvenuta la Cina finché si limita a comprare i pub; ma se vuole entrare nella stanza dei bottoni, no grazie.

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Alessandro Fantechi