La caduta del prezzo del petrolio e la questione del fracking
Il crollo delle quotazioni del greggio ha riacceso i riflettori sullo shale gas. I benefici in bolletta ci sono ma preoccupa il rallentamento asiatico
Si deve anche al fracking l’altalena dei mercati che negli ultimi giorni ha tenuto con il fiato sospeso decine di migliaia di signori in grisaglia (e noi tutti). Non solo, per carità. Le cause dell’incertezza dei listini sono parecchie seppure collegate tra loro. Ma alla “fratturazione idraulica” spetta una menzione d’onore.
È la tecnica estrattiva a cui si deve il miracolo del gas non convenzionale più noto come shale gas ossia gas di scisto che ha permesso agli Stati Uniti di affrancarsi dalla dipendenza delle materie prime altrui e anzi di diventare paese esportatore. Ma andiamo in ordine. Il fracking sta per getti d’acqua e solventi che separano petrolio e gas da rocce e sabbie. Rendendo di fatto accessibili riserve di materie prime pressoché illimitate.
O meglio: si stima che il solo gas di scisto presente in natura sia almeno in quantità pari a quella delle riserve provate di gas convenzionale (190 trilioni di metri cubi). Anche se l’americana Energy information administration (Eia) ne stima il doppio. Ancora: il gas convenzionale si trova in pochi Paesi perlopiù al di fuori dell’area Ocse, mentre lo shale gas è assai diffuso. Negli Usa, certo. Ma anche in Europa e in Asia. E questo fa la differenza. Soprattutto in prospettiva.
Che c’entra con i listini di Borsa? C’entra. Perché a scatenare il panico sui mercati è stato quello che è stato definito il “contro-shock petrolifero” con relativa caduta in picchiata dei prezzi del petrolio che in sei mesi ha lasciato sul terreno il 50% circa del proprio valore (il 10% solo nell’ultima settimana, complice la decisione dell’Opec di mantenere invariata la produzione per il 2015 anche per colpire gli Usa). In termini assoluti: le quotazioni del Brent hanno rotto anche l’argine dei 60 dollari al barile mentre il Wti a New York è scivolato sotto i 56 dollari.
Riporto un esempio fatto dal Wall Street Journal che rende piuttosto bene l’idea del ruolo del fracking: dal 2008 ad oggi sono scomparse dai mari 100 super-petroliere al mese pari a 90 milioni di barili mensili in provenienza dai Paesi dell’Opec per il mercato Usa. Non ci sono più. Non servono. Tra poco anzi ci saranno altre navi a solcare i mari. Stavolta in arrivo dagli Usa per i mercati terzi.
Nel giugno scorso infatti l’amministrazione Obama ha concesso le prime licenze per l’export di petrolio americano rompendo un tabù che durava dal 1973, anno del primo shock petrolifero quando i Paesi Opec lasciarono letteralmente a piedi l’Occidente intero. Il secondo fu nel 1979.
Ma se gli Usa non comprano più... chi compra? Tutti gli occhi sono ora puntati sulla Cina ma – udite, udite - la Cina rallenta. E con essa tutte le nazioni emergenti che da anni trainano il motore mondo con tassi di crescita da noi impensabili (e mai più realizzabili). Ed è questo il rovescio della medaglia: se il crollo dei prezzi del greggio è di per sé una buona notizia per i Paesi acquirenti, Italia in testa, la crisi della domanda energetica di Cina & co non lo è affatto. Perché mette a rischio la tenuta stessa dell’economia mondiale. Altroché ripresa!
Per carità: stando al Centro studi di Confindustria il crollo dei prezzi di petrolio & gas si traduce per la bolletta italica in un risparmio netto di 14 miliardi l’anno con un impatto positivo di 0,3% sul Pil per il solo 2015. Perciò godiamocela finché dura. Ma occhio ai campanelli d’allarme.