Campari e Bob Kunze-Concewitz: ho sete di nuove conquiste
In viaggio con il capo dell'qazienda che prende 150 aerei all’anno alla ricerca di whisky, rum e bevande misteriose da comprare
Appena entrato nella hall dell’albergo, Bob Kunze-Concewitz, amministratore delegato della Campari, viene accolto da un sonoro «ciao!» lanciato da un sorridente signore che si prepara ad affrontare la fredda serata di Mosca con un semplice spezzato giacca e jeans: «Sono arrivato da poco anch’io» gli annuncia in italiano Mauro Mahjoub, uno dei massimi esperti al mondo (lui vi dirà «il massimo») di cocktail Negroni. «Ora devo correre a vedere un nuovo bar, ci vediamo domani alla fiera». Sono passate poco più di 2 ore da quando l’aereo dell’Aeroflot è atterrato e Kunze-Concewitz, che ha viaggiato in economy, si è già rituffato nel pittoresco mondo che ruota intorno al business degli «spirits», i superalcolici e gli aperitivi, cuore della multinazionale italiana. Partita da una bevanda rossa dalla formula segreta, l’azienda ha costruito un impero multinazionale da 1,5 miliardi di euro con il cervello a Sesto San Giovanni, a nord di Milano, e clienti in 190 paesi.
Mahjoub, l’uomo che Bob ha appena salutato, è figlio di un’italiana e di un libanese, gestisce un bar a Monaco di Baviera e come esperto di Negroni è diventato un «Campari brand ambassador», «cocktail historian» e «barmeister»: in sostanza, gira il mondo tenendo conferenze per conto del gruppo italiano e insegnando ai barman a preparare una delle miscele più celebrate.
Anche lui è in Russia per il Moscow bar show, una fiera internazionale alla quale partecipano i più importanti produttori di alcolici del mondo e molti famosi barman. Del resto questo è un paese che sta assaporando il benessere economico e vuole gettarsi alle spalle un passato di vodka per gustare nuovi prodotti. «La gente qui ha un ottimo palato» sostiene Kunze-Concewitz «e la Russia è un mercato in fortissima crescita». Infatti il capo della Campari è venuto qui non solo per la fiera, ma anche per verificare come sta andando la società di distribuzione acquisita un anno e mezzo fa e trasformata nella Campari Rus.
Alle 12 della mattina del giorno dopo i primi giornalisti arrivano al 33° piano dell’albergo per la conferenza stampa di Kunze-Concewitz: l’ingresso diretto della società italiana in Russia è una notizia anche a Mosca. «Siamo presenti direttamente in 14 paesi e ora fra questi c’è la Russia» spiega «perché pensiamo che abbia una grande potenzialità di crescita. Oggi il mercato russo rappresenta il 3 per cento del fatturato Campari: ritengo che potremo raddoppiare questo numero nel giro di 3-4 anni». I giornalisti sono interessati a come Kunze-Concewitz giudica le nuove norme che in Russia impediranno le pubblicità agli alcolici: «Noi siamo per un consumo consapevole, pensiamo che sia meglio bere meno e meglio. E poi nel nostro portafoglio ci sono prodotti di successo a minore gradazione, come l’Aperol, che possono incontrare la domanda di un pubblico che cerca alcolici più leggeri».
L’ottimismo del manager può apparire sorprendente: non solo stiamo vivendo una crisi economica pesantissima, ma gli alcolici sono nel mirino dei governi di mezzo mondo. Eppure la Campari sembra vivere in un altro mondo. Intanto perché la domanda globale nel suo mercato di riferimento (superalcolici e aperitivi) continua nonostante tutto a crescere del 2-3 per cento all’anno in volumi e ancora di più in valore. E poi perché l’azienda italiana avanza come un bulldozer da anni, senza conoscere battute d’arresto: fatturava 400 milioni di euro, ora supera il miliardo e mezzo. In poco più di 10 anni ha triplicato il giro d’affari e quadruplicato il valore del titolo in borsa. Un’avanzata che deve il suo successo a una formuletta semplice semplice: «Crescere del 10 per cento all’anno, metà per sviluppo interno, metà con acquisizioni» recita Kunze-Concewitz.
Finora l’obiettivo è stato centrato, per la gioia degli azionisti, a partire da Luca Garavaglia, presidente e socio di maggioranza insieme alla sua famiglia con il 51 per cento del capitale. «Avere la maggioranza in mano alla famiglia si è rivelato utile» riconosce Kunze-Concewitz «perché la nostra strategia richiede tempo e non possiamo essere governati da chi guarda solo ai risultati trimestrali». L’alchimia tra padrone e manager sembra funzionare perfettamente e Kunze-Concewitz gira il mondo come una trottola per seguire i vari business locali e per individuare la prossima preda.
Passaporto austriaco, vissuto in Turchia, Germania, Stati Uniti, a Londra e in Italia, moglie tedesca e due figli, l’amministratore delegato della Campari prende più o meno 150 aerei all’anno. «Mi piace guardare in faccia le persone». E intanto studia il mercato che, essendo ancora molto polverizzato fra tanti piccoli produttori, presenta ancora molte occasioni. Il manager lo spiega nel pomeriggio nel corso di una riunione con i suoi dipendenti russi: «In 17 anni abbiamo concluso 23 acquisizioni. L’ultima, la Lascelles de Mercado della Giamaica, la terza per importanza con un valore di oltre 330 milioni, ci ha permesso di entrare nel mercato del rum con uno dei più grandi marchi del settore». La società giamaicana, su cui ora parte l’opa, non solo fa aumentare di circa 260 milioni di dollari il fatturato della Campari, ma porta in dote 2 mila dipendenti (quasi quanti ne ha il resto del gruppo): «Con l’azienda abbiamo rilevato anche 6 mila ettari di canna da zucchero, il rum del resto è un sottoprodotto dello zucchero». Il risultato è che oggi una società con sede a nord di Milano è diventata uno dei gruppi più influenti nella società giamaicana.
È una delle singolarità della Campari. Come quella di avere concluso le grandi acquisizioni in momenti di crisi. Nel 2001 gli italiani convinsero tal Maurice Kanbar di San Francisco, l’imprenditore che voleva creare una vodka senza l’«effetto mal di testa», a cedere la famosa Skyy. Nel 2005 è la volta del whisky Glen Grant in Scozia. E nel 2009 Bob andò nel Kentucky per portarsi a casa il bourbon Wild Turkey, un’operazione record da 420 milioni di euro.
Oggi la Campari ha 65 marchi in portafoglio: alcuni come il Cinzano vantano oltre 200 anni di storia, altri sono recenti creazioni, come l’Aperol Spritz. E con un range di prezzo che va dal mezzo euro di una lattina di Lemonsoda ai 4 mila euro per una bottiglia di rum invecchiato di 50 anni.
Passeggiando al Moscow bar show fra gli stand dei grandi protagonisti dell’alcol e barman-acrobati che fanno volare per aria shaker e bottiglie, viene spontaneo domandarsi se prima o poi la stessa Campari diventerà preda. Oggi la società italiana è al sesto posto nella classifica mondiale degli spirits, guidata dai giganti Diageo (inglese, 10 volte la Campari) e Pernod Ricard (francese, 8 volte), seguiti da una pattuglia di aziende più piccole. «Rispetto ai concorrenti» replica Kunze-Concewitz «siamo più snelli e rapidi nelle decisioni. Abbiamo una strategia coerente e un’ottica a lungo termine: acquistiamo marchi locali e li facciamo crescere con l’obiettivo di essere tra i primi tre nei singoli paesi. E di possibilità ce ne sono ancora tante: i primi 10 gruppi del settore hanno solo il 15 per cento del mercato, ci sono ancora tanti produttori indipendenti». Se dovesse dare una definizione della Campari, il manager la descriverebbe come una Porsche: elegante e veloce, ma con un portafoglio che comprende la Volkswagen e la Rolls-Royce.
Le ultime ore a disposizione di Kunze-Concewitz a Mosca sono dedicate alla visita nei supermarket: ne vengono scelti quattro, dall’ipermercato in periferia al punto vendita più chic nel centro di Mosca. Il manager controlla l’esposizione delle bottiglie, verifica i prezzi, mentre ogni tanto getta un’occhiata sul Blackberry alle quotazioni del titolo: la Jp Morgan ha appena migliorato il suo giudizio sulla Campari. Ma Kunze-Concewitz già deve pensare al prossimo obiettivo per fare crescere il fatturato del 10 per cento: forse è questione di qualche anno, ma un altro marchio finirà nelle mani del gruppo italiano. Magari in Africa.