La zampata della Cina sull'America Latina
Pechino ha superato gli Usa negli scambi commerciali con i paesi italo-americani facendone terra di conquista
Mentre l’Europa si sfibra nel discutere «Cina sì, Cina no» l’impero del Dragone, in silenzio e con la discrezione che nei secoli lo ha reso un gigante, anche dell’economia, stringe la morsa decisiva sull’America latina, continente che da anni sta invadendo a colpi di Renminbi (la valuta cinese). Ma adesso la Belt and Road Initiative (BRI), come si chiama in termini tecnici la Via della Seta, qui si fa e per davvero. E in questa parte di mondo è già vista come una fiammante scintilla di futuro. La decisione, presa ufficialmente nel 2013 dal presidente Xi Jinping con il placet dei governi locali, a piccoli ma importanti passi sta diventando quest’anno una realtà tra Caraibi e Sudamerica.
Così gli Stati Uniti - nonostante con Donald Trump abbiano visto rispolverare l’antica «dottrina Monroe» che sostiene la loro supremazia nelle Americhe e abbiano ribadito il loro peso a suon di parole e sanzioni contro Paesi come Venezuela, Cuba e Nicaragua - non sono riusciti a tenere lontano il rivale orientale dal loro «cortile di casa». Pechino nell’ultimo decennio ha superato Washington negli scambi commerciali con la stragrande maggioranza dei Paesi latinoamericani - da un giro d’affari di 17 miliardi di dollari del 2002 è passato ai 307 miliardi del 2018, con un investimento della Cina nel 2017 di oltre 200 miliardi di dollari.
La Via della seta versione America latina sarà il colpo finale: un’autostrada del futuro a base di ponti, dighe, ferrovie, porti e aeroporti, centrali elettriche e nucleari con relative reti di trasmissioni, e tanta tecnologia con il suo colosso Huawei. Ma perché una Via della seta in questa parte di mondo? La risposta è semplice. Per consentire il trasporto di minerali di ferro, rame, petrolio e soia che da soli rappresentano oggi il 70 per cento dell’export dall’America latina verso la Cina. L’America latina, insomma, è centrale per Pechino proprio come lo è l’Africa.
Il primo ad aderire entusiasta al progetto cinese è stato Panama, seguito a stretto giro di posta da 18 Paesi tra cui Uruguay, Ecuador, Venezuela, Cile, Uruguay, Bolivia, Costa Rica, Cuba, Guyana, Suriname e Perù: l’ultimo arrivato per rispolverare il progetto di ferrovia transoceanica proposto sempre dal 2013 per collegare Oceano Atlantico e Pacifico, dal Perù al Brasile, tagliando in due l’Amazzonia e consentendo alle materie prime boliviane di arrivare in Cina.
Del resto, Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, Cile, Perù, Uruguay e Venezuela sono anche membri della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, fondata a Pechino nell’ottobre 2014, il cui scopo è proprio quello di finanziare progetti di infrastrutture che connettano la regione Asia-Pacifico con il resto del mondo.
Partiamo allora da Panama, dove la Via della seta sta costruendo la linea ferroviaria che collega la capitale con la città occidentale di David. Costo stimato iniziale, 5 miliardi di euro. Il Paese caraibico ha ufficialmente allacciato per la prima volta relazioni diplomatiche con la Cina il 12 luglio 2017, in virtù anche del ruolo strategico del suo celebre canale.
Guarda caso, quello stesso giorno una delle più grandi aziende private cinesi, il China Landbridge Group, ha iniziato la costruzione di un mega porto, il Panamá Colón Container Port, in grado di fornire i moli d’attracco per le grandi navi cargo Super Post-Panamax. Una notizia questa che colmerebbe in parte il flop del progetto del canale di Nicaragua: lanciato in pompa magna nel 2013 dal dittatore sandinista Daniel Ortega, dopo sei anni non ha ancora raccolto neanche un dollaro dai finanziatori né costruito un metro. Eppure quell’anno il progetto era stato venduto ai media internazionali come «la più grande opera ingegneristica del mondo». Ma i cinesi, la loro storia lo dimostra, non si demoralizzano. Morto un canale, se per ora non se ne può fare un altro, ci si aggiunge del proprio a quanto esiste già. Del resto, sono tanti gli interessi sul continente per non perdersi d’animo.
Lo dimostra l’Argentina, dove lo scorso aprile l’amministrazione del presidente Mauricio Macri ha firmato una lettera di intenti con l’amministrazione nazionale dell’energia di Pechino. Il contratto include un prestito di 10 miliardi di dollari dalla Banca industriale e commerciale della Cina. Una somma sufficiente a coprire l’85 per cento dei costi di costruzione dell’impianto nucleare Atucha III, sito nella provincia di Buenos Aires, che dovrebbe diventare operativo a partire dal 2021. Nella remota Patagonia poi, parla cinese una stazione per il monitoraggio dello spazio aereo.
La Cina, dunque, sembra aver salvato da un altro possibile default l’Argentina che, molti analisti da allora hanno ribattezzato ArgenChina. Per non parlare del disastrato Venezuela che riesce nonostante tutto a tenersi a galla anche grazie ai 16 prestiti da 60 miliardi di euro concessi di recente da Pechino a Caracas. Stesso discorso vale per l’Ecuador che, secondo i dati raccolti dal Financial Times, deve oltre 10 miliardi di euro alla Cina e ha ormai superato di slancio gli Stati Uniti come primo partner commerciale dell’America latina. Anche la ricostruzione dell’aeroporto internazionale Eloy Alfaro, nella città di Manta colpita da un terribile terremoto nell’aprile 2016, si sta concludendo proprio grazie ai finanziamenti di Pechino. E persino Cuba sta sostituendo Pechino al Venezuela nell’interscambio commerciale così come nelle infrastrutture: lo dimostra il mega-porto di Mariel, un’opera finanziata con oltre un miliardo di dollari dal BNDES, la Banca per lo Sviluppo economico brasiliana, destinata a essere lo snodo principale della Via della seta nei Caraibi.
Quanto al Brasile, sono i cinesi con la loro compagnia statale State Grid, la maggiore al mondo del settore, a distribuire l’energia prodotta dall’immensa centrale idroelettrica di Belo Monte, stato del Parà, in piena Amazzonia, oggetto di polemiche feroci da parte degli ambientalisti e delle locali comunità indigene per l’enorme impatto ambientale dell’opera.
Un aspetto, questo, poco evidenziato ma di grande importanza: sul piano ambientale i cinesi ci vanno pesante, molto peggio degli Stati Uniti come conferma, sempre in Brasile, il progetto della mega ferrovia che taglia in due l’Amazzonia collegando il Brasile e Perù; o il progetto del canale del Nicaragua con annessa deviazione di interi fiumi e l’attraversamento di un lago. Ancora, in Ecuador El Mirador, ovvero 1.822 chilometri quadrati di terra dati in concessione nel 2012 dall’allora presidente Correa a Pechino per costruire una serie di miniere a cielo aperto. E poco importa che la zona coincidesse con la Cordigliera del Condor, patria della seconda etnia indigena del Paese, gli Shuar.
Insomma, l’America latina è ormai terra di conquista dei cinesi con i loro progetti faraonici, l’ansia di futuro e quel quid di indifferenza nei confronti della salute del pianeta che il tintinnio dei soldi, almeno per il momento, sapientemente offusca. Un boomerang, però, per le generazioni che verranno.
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