Cina, il terzo Plenum e le “industrie del futuro”
La principale economia del mondo non riesce a trovare la via d'uscita alla ricerca di una crescita spasmodica che oggi riguarda soprattutto le aziende energetiche e tecnologiche
Il terzo plenum del ventesimo Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC), un evento a porte chiuse guidato dal presidente Xi Jinping, non ha prodotto alcun annuncio importante volto a promuovere la crescita economica e non ha fatto emergere soluzioni a breve termine ai problemi, ormai cronici, che attanagliano la seconda economia più grande del mondo. Tuttavia la determinazione a "sforzarsi incrollabilmente” con cui è stato ribadito l’impegno per raggiungere gli obiettivi di crescita di quest'anno, un proposito insolitamente a breve termine e mirato per la retorica del PCC, suggerisce la possibilità di un maggiore sostegno statale per garantire che la Cina raggiunga il suo obiettivo di crescita: l’ormai noto “circa 5%”.
C’è chi ha letto “ansia” in questa enfasi che lascia percepire una tensione, tra i dirigenti del Partito, che potrebbe indurre a interventi politici più aggressivi.
L’Impero di Mezzo sta affrontando venti contrari su più fronti, tra cui la lenta crescita economica, l'elevata disoccupazione giovanile e le pressioni geopolitiche: il sentiment dei consumatori e delle imprese è vicino ai minimi storici a livello nazionale.
Se i leader globali sono sempre più preoccupati della supremazia manifatturiera e della sovrapproduzione cinese quello che emerge dal Plenum è che il futuro terreno di scontro saranno le industrie del futuro, guidate da tecnologie all'avanguardia, attualmente in fase di incubazione o all'inizio dell'industrializzazione, con caratteristiche strategiche, di leadership e potenzialmente dirompenti.
La competizione ora si concentra su aspetti che vanno oltre la supremazia manifatturiera e investono piuttosto quella tecnologica. Sempre più le compagnie occidentali percepiscono Pechino non come un produttore preferenziale ma piuttosto come un rivale nello sviluppo e controllo della tecnologia.
Questo comporta ripercussioni su più piani distinti: il controllo delle catene industriali può ripagare profumatamente in dividendi sia commerciali che strategici, con significative implicazioni per la sicurezza nazionale ed economica per i perdenti. Sul piano dei profitti, per le logiche del vantaggio comparato, la maggior parte rimane a chi detiene il controllo della tecnologia non a chi la produce: Foxconn produce gli iPhone ma dispone di un sottile margine dei profitti che restano a Apple. Il dominio di Taiwan nella produzione chip più avanzati al mondo la rende una gigantesca fonderia ragionevolmente redditizia, anche in considerazione del dominio globale della supply chain, ma la maggior parte dei profitti resta a chi, dei chip, ne detiene la proprietà intellettuale.
L'intelligenza artificiale (IA) richiede potenza di calcolo. La potenza di calcolo richiede chip potenti. E in questo momento, la Cina sta facendo di tutto per mantenere l'accesso ai chip occidentali.
La vulnerabilità della Cina nel settore dell’IA risiede nella sua dipendenza da chip stranieri: i brevetti cinesi sono per lo più concentrati in applicazioni a medio e basso livello della catena industriale.
Le restrizioni all'esportazione di chip dell’Occidente stanno iniziando a comprimere l'industria dell'intelligenza artificiale cinese, a giudicare dai limiti di utilizzo imposti alle aziende tecnologiche cinesi ed alle startup di intelligenza artificiale, una su tutte Alibaba Cloud.
Da qui l’importanza per il Partito Comunista Cinese di “facilitare le scoperte rivoluzionarie nella tecnologia”: il futuro di oggi è il presente di domani. Una lezione che l’Occidente, oggi, pare lentamente iniziare a comprendere guardandosi indietro. Le industrie strategiche emergenti del passato erano le industrie del futuro di quel momento, e Pechino vi ha creduto prima di coloro che le promuovevano in Occidente. Le attuali industrie cinesi strategiche rappresentate dai "nuovi tre", batterie, veicoli elettrici, pannelli solari, hanno “superato in curva" quelle occidentali perché in quel momento hanno saputo afferrare il futuro: sviluppare le industrie del futuro significa continuare a competere per il futuro.
Il Plenum conferma come, il governo abbia, ormai da tempo, drasticamente cambiato la visione sul valore del suo settore immobiliare: da motore economico a rischio da disinnescare. Tuttavia i nuovi motori di crescita economica, le “vecchie” industrie del futuro, non paiono ancora in grado di colmarne il vuoto: “i nuovi tre” non sono in grado di assumerne, quantomeno a breve, le stesse dimensioni, il 19,4%, in termini di PIL.
Al centro delle riforme c’è la spinta ad accelerare lo sviluppo scientifico e tecnologico della Cina: una mission-critical per la transizione economica della nazione dove la dimensione dell’economia digitale è seconda solo a quella degli USA.
La Cina è salita rapidamente sulla catena del valore globale con rapidi progressi nello sviluppo tecnologico: in termini di innovazione, è stata classificata, l’anno scorso, dalla World Intellectual Property Organization la nazione più innovativa, rispetto al 35esimo posto nel 2013, e ora sta guidando la transizione verde del Pianeta.
Tuttavia, come Xi ha sovente ripetuto in questi anni, la parte facile della riforma è finita, e ora la navigazione è in acque profonde ed inesplorate. Dopo la riforme di Deng Xiaoping con la costruzione della “Fabbrica del Mondo” ora il partito deve stare attento ai suoi passi, soprattutto quando vengono toccati gli interessi acquisiti di molti gruppi interni.
Quella di Pechino è un’agenda conflittuale non da oggi, il suo impegno a lasciare che i mercati svolgano ruoli decisivi nell'allocazione delle risorse è stato condizionato dal dominio delle grandi società (State Owned Enterprise, SOE) controllate dallo Stato e della proprietà pubblica.
Il Dragone ha scoperto di non essere pronto a pagare il prezzo doloroso di combattere interessi radicati che sono difficili da estirpare: i governi locali e le SOE hanno un interesse diretto a rallentare le riforme ed impedire che i mercati svolgano ruoli decisivi nell'allocazione delle risorse. E negli ultimi due anni, la quota di SOE tra le prime 100 società quotate cinesi, per capitalizzazione di mercato aggregata, è aumentata dal 31,2% al 50%. La crescita della proprietà statale è stata più pronunciata nei settori finanziario e tecnologico.
Tra i nodi irrisolti resta la crescita trainata dai consumi interni, che non riesce a decollare senza una riforma del sistema economico che riduca le misure restrittive che compromettono i diritti e la concorrenza leale. Questi effetti si riflettono sull’insoddisfazione di larga parte della popolazione che, secondo una ricerca ventennale di Big Data China, è diventata più incline a dare la colpa della povertà ad un sistema economico ingiusto ed diseguale, piuttosto che alla propria mancanza di capacità.
Inoltre a pesare sugli obbiettivi di Pechino c’è la deglobalizzazione e il deterioramento dei legami della Cina con l'Occidente, che si manifesta sul fronte commerciale e tecnologico.
E se da un lato rivitalizzare l’economia passa dal costruire una migliore relazione con gli investitori stranieri e aumentare la fiducia del settore privato, dall’altro la cruda realtà in Cina è che la sicurezza prevale su ogni aspetto, dall'economia alla diplomazia con il risultato è che le riforme cedono il passo alle rivalità geopolitiche.
La sicurezza mina gli obbiettivi economici nello stesso momento in cui la Cina cerca di attirare più investimenti: gli investitori stranieri si trovano alle prese con scelte geopolitiche di de-risking, quando non esplicitamente di disaccoppiamento, da parte di due importanti partner commerciali come l’UE e gli Stati Uniti, dove si affaccia un nuovo Presidente...