Contratti precari, quanti sono in Italia
Il premier Renzi vuol cancellare molte collaborazioni flessibili come le co.co.co. e le co.pro. Ma non sarà facile riuscirci
Rendiamo più facili i licenziamenti ma cancelliamo anche i contratti precari. E' la promessa giunta ieri dal premier Matteo Renzi, in vista della direzione del Partito Democratico convocata per oggi, dove verrà discussa l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Con la prossima riforma del welfare (Jobs Act) all'esame del Senato, il governo vuole infatti liminare l'articolo 18 per i nuovi contratti di lavoro (non per quelli già in essere), rendendo così più facile per le aziende lasciare a casa un dipendente, anche senza una giusta causa. Come contropartita, però, Renzi promette di approvare una misura caldeggiata da anni dai sindacati e da gran parte della sinistra.
Riforma del lavoro e Jobs Act: i diritti persi e i diritti acquisiti
Questa misura è appunto la cancellazione di molti contratti precari e ultraflessibili oggi esistenti in Italia, come le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co) e le collaborazioni a progetto (co.pro.). Si tratta di cosiddetti rapporti parasubordinati, che formalmente sono classificati come lavoro autonomo ma che, in realtà, nascondono spesso un forte vincolo di dipendenza verso l'azienda. I collaboratori flessibili, che possono essere licenziati con molta facilità, sono infatti quasi sempre obbligati a rispettare gli stessi obblighi e orari previsti per i loro colleghi assunti invece con un regolare contratto di lavoro subordinato.
Una selva di contratti
Disboscare la giungla del precariato, però, non sarà un'impresa facile come potrebbe sembrare a prima vista. Secondo una stima effettuata tempo fa dalla Cgil, le forme di assunzione oggi esistenti nel nostro paese sono in totale ben 46. Oltre alle co.co.co e alle co.pro., ci sono per esempio i lavori stagionali e occasionali, il contratto di assunzione a chiamata, una lunga sfilza di stage e tirocini o le collaborazioni autonome con la partita iva (che sono un altra forma di lavoro dipendente mascherato). La nascita di questa giungla di contratti , secondo la Cgil, è dovuta soprattutto alla legge 30 del 2003 (meglio nota come Legge Biagi) che ha contribuito notevolmente alla diffusione del precariato nel nostro paese.
Ben diversa è invece la posizione di studiosi come Pietro Ichino, noto giuslavorista e senatore di Scelta Civica secondo il quale, sulla legge Biagi, si è diffusa negli ultimi anni una vera e propria “leggenda metropolitana”. Molti dei contratti precari censiti dalla Cgil, infatti, esistevano da anni già prima dell'entrata in vigore della legge 30, che si è limitata soltanto a rinominarli e a regolarli in modo diverso rispetto a prima. Le collaborazioni coordinate e continuative, per esempio, erano ampiamente utilizzate sin dagli anni '90. Poi, la Legge Biagi ne ha circoscritto l'utilizzo, imponendo a molte aziende di ricorrere a queste assunzioni flessibili solo quando sono legate alla realizzazione di uno specifico progetto. Stesso discorso per il contratto di formazione lavoro, che un tempo esisteva anche nell'industria e poi è stato confinato dalla legge soltanto al pubblico impiego. Tirando le somme, per Ichino le tipologie di contratti di lavoro presenti in Italia non sono più di 15 in tutto, o poco di più.
Articolo 18, com'è oggi e come sarà in futuro
Chiunque abbia ragione (la Cgil o Ichino) una cosa sembra certa: la selva dei contratti precari potrebbe subire presto una sforbiciata. La Cgil ha proposto da tempo di ridurre il numero totale di assunzioni a non più di cinque: oltre al contratto a tempo indeterminato, dovrebbero rimanere in vigore gli impieghi a termine, l'apprendistato, il part-time e un contratto di reinserimento, per aiutare chi ha perso il posto a trovare una nuova occupazione. Anche nel testo del Jobs Act si parla di uno sfoltimento dei contratti precari e ieri Renzi ha fatto esplicito riferimento alle co.co.co. e co. pro. E' ancora presto, tuttavia, per capire in quale direzione si muoverà il governo, visto che i decreti attuativi della riforma del lavoro sono tutti da scrivere.