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(Ansa)
Economia

Messori: «In Italia c'è anche un problema di produttività»

L’economista della Luiss e già presidente di Ferrovie dello Stato riflette sulla crisi post pandemia, l'inflazione, il lavoro ed i salari

Prima il Covid, ora la guerra in Ucraina. Il mondo globalizzato, anzi, l'economia del mondo globalizzato ha dovuto fare i conti negli ultimi due anni con fatti imprevisti ed imprevedibili che ne hanno messo in dubbio dogmi e solidità. Il caro materie prime, l'inflazione alle stelle, la paura della recessione, Con Panorma.it Marcello Messori, noto economista e docente della Luiss, ha riflettuto sulla «doppia iattura che ha messo in crisi il nostro sistema economico».

Professore, dopo una pandemia, per andare peggio occorreva un conflitto bellico.

«Il punto di partenza è proprio questo. Gli effetti dello shock pandemico non si erano ancora esauriti quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Le code dello shock pandemico già comportavano strozzature dal lato dell’offerta per materie prime e beni energetici che la guerra, al di là della drammaticità politica, sociale e umana, ha fortemente peggiorato il quadro clinico della nostra economia».Prof. Marc

Prof. Marcello Messori(Imagoeconomica)

Ma non solo, purtroppo.

«Le tensioni sul mercato dell’energia si sono rivelate come pressioni inflazionistiche molto forti, e lo stesso si sta verificando ora per altre materie prime. Purtroppo si verificheranno problemi molto gravi nel settore agricolo, con conseguenze non soltanto per l’Europa quanto per i già martoriati paesi poveri, che rimarranno senza grano».

Non c’è da stare allegri…

«La situazione è estremamente delicata: la guerra ai confini orientali della nostra Europa fa registrare un fortissimo aggravamento delle tensioni inflazionistiche con rischi di stagnazione economica che derivano da questo shock bellico. Come dire: stavamo faticosamente uscendo dalla prima crisi, quella pandemica, che ora ci troviamo in faccia una seconda preoccupantissima crisi. Dubbi che si sommano a incertezze».

C’è da sottolineare come, in ogni caso, la reazione europea sia stata assolutamente positiva in entrambi i casi,

«A seguito della crisi da Covid-19, abbiamo registrato una combinazione di politiche monetarie molto espansive e l’avvio di una politica fiscale centralizzata: la capacità fisale centrale -la c.d. Next Generation Eu- è uno strumento europeo volto a aiutare, attraverso investimenti, i paesi membri a seguito delle perdite dovute alla crisi sanitaria. I settori principalmente interessati sono l'ecologia, la sanità e la parità».

Spicca il Recovery and Resilience Facility.

«Si tratta di un innovativo strumento diretto a fornire sostegno finanziario agli Stati membri legato, ovviamente, al raggiungimento di precisi risultati: i fondi europei vengono erogati a fronte dell’attuazione, entro il 2026, di riforme e investimenti concepiti proprio per rispondere alle sfide che gli stati dell’Unione sono chiamati ad affrontare. In pratica l’Unione europea eroga i fondi del RRF solo quando si raggiungono, in maniera soddisfacente, obiettivi precedentemente concordati».

Merita la menzione anche la recente iniziativa di RePower Eu.

«Varato dalla Commissione europea allo scopo di fornire risposte alle difficoltà e alle perturbazioni che il mercato mondiale dell’energia sta attraversando a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: in questa direzione occorre trasformare il sistema energetico europeo per porre termine alla storica dipendenza dai combustibili fossili provenienti dalla Russia, attualmente utilizzati, non dimentichiamolo, come strumento di pressione economica e militare. Si pensi che tali forniture costano ai cittadini europei ben 100 miliardi di euro all’anno».

L’azione europea comune è certamente più conveniente di quella dei singoli Stati.

«Assolutamente, perché nel momento stesso in cui l’Europa agisce come “Unione” è in grado di affrancarsi molto rapidamente dai combustibili fossili russi. Si pensi che l’85% dei cittadini europei ritiene che l’Unione debba ridurre, se non proprio eliminare, la storica dipendenza da gas e petrolio russi per sostenere l’Ucraina».

Insomma, la risposta europea è stata coordinata…

«Si tratta della giusta direzione, peraltro già imboccata: sembra assumersi metodologicamente la consapevolezza che di fronte ad eventi eccezionali occorre fornire risposte eccezionali, in particolare di politica di bilancio, di politica fiscale centralizzata. Si tratta del punto cruciale da cui occorre ripartire senza nascondere la difficoltà del momento».

In sintesi?

«Per quanto riguarda le misure attuate allo scoppio della guerra in Ucraina, l’Unione europea ha dimostrato un’elastica capacità di reazione rispetto a un evento così drammatico sul piano politico-istituzionale che molti certamente temevano nel lungo periodo, ma che nessuno, neanche gli analisti più acuti, immaginavano così rapido nello scoppio».

Professore, spostiamoci in Italia…

«Sappiamo come il nostro Paese, insieme alla Germania, abbia una forte vocazione manifatturiera e che sia stato, quindi, particolarmente vulnerabile allo shock bellico, che si è sommato all’impatto da Covid- 19. Aggiungo come anche il settore dei servizi abbia subito sofferenze, come dimostrano i dati del primo semestre del 2020, con un rimbalzo nel 2021. Oggi, purtroppo, l’Italia subisce la coda della crisi pandemica unitamente agli effetti destabilizzanti della crisi bellica, e allora capiamo come una doppia crisi in corso stia generando strozzature dal lato dell’offerta, ovvero proprio dai settori manifatturiero e dei servizi collegati».

E le cifre del 2022 cosa ci dicono?

«Devo riconoscere che leggendo i dati del primo trimestre di quest’anno, emerge una capacità di resistenza nell’economia italiana ben al di sopra delle più rosee previsioni: certo occorre aspettare che effetto avranno la durata del conflitto e gli effetti delle sanzioni alla Russia sull’economia europea e quali le iniziative di politica economica centrale l’Ue saprà assumere. Non dobbiamo però nasconderci che i rischi di tassi di inflazione elevati e di stagnazione dell’economia colpiscano l’Italia in modo pesante».

Non l’unica problematica…

«Nel nostro Paese insiste un problema ulteriore rispetto agli altri europei, ovvero una perdita di potere di acquisto da parte delle famiglie a reddito medio-basso e basso: ciò deriva dalla stagnazione dei salari che si accompagna a una non favorevole dinamica della produttività. Un combinato disposto per noi estremamente pericoloso: se non cresce la produttività ogni tensione salariale erode margini di competitività e d’altro canto se c’è una perdita di poter d’acquisto viene meno uno degli stimoli alla crescita dal lato della domanda».

Professore, la sua ricetta in materia…

«Per poter uscire rafforzati in una prospettiva di medio-lungo periodo da queste crisi, il nostro Paese deve raggiungere l’obiettivo del miglioramento della produttività media. E in questo caso mi permetto di insistere sul termine “medio”. Non dimentichiamo che l’Italia è il paese della varietà delle divergenze interne: dalle differenze tra Nord e Sud, a quelle tra aree dello stesso Mezzogiorno, sino alle differenze tra imprese virtuose e quelle -di piccolissime dimensioni- che non riescono a stare al passo della crescita della produttività».

Conseguenze?

«Semplicemente che in media il dato della produttività non riesce a superare un standard ormai fermo da troppo tempo: con le conseguenze, appunto, gravi sul versante della dinamica salariale, che giunge sino a spingere, purtroppo, i nostri stessi giovani all’emigrazione forzata».

Insomma, una concatenazione di cause-effetti.

«Io tendo a dare molta importanza alla produttività, in quanto si registra la decantazione di una complessa serie di problemi dell’economia Italiana, della società e della stessa democrazia nostrana. Siamo una popolazione vecchia, con bassi tassi di attività, con scarsissima propensione alla filiazione, tutte prospettive non certo rosee. Poi aggiungiamo come la stessa popolazione in età lavorativa sia poco attiva sul mercato del lavoro, ecco spiegata l’incidenza maggiore di giovani che non si formano, non studiano e non cercano occupazione. Senza dimenticare il basso tasso di attività femminile nel mondo lavoro, retaggio storico difficile da superare».

Anche qui altre conseguenze immaginabili…

«Purtroppo la nostra vulnerabilità strutturale si fa sentire, nonostante la nostra capacità di resilienza, come nel settore manifatturiero… ».

A questo punto il pessimismo ci sovrasta!

«Chiariamo subito che le ragioni per essere ottimisti non mancano certo, e vengono tutte dall’Europa. Non possiamo certo sottovalutare il salto di qualità che è stato compiuto con l’accentrare, a livello europeo, iniziative di politiche di bilancio. Se quest’intervista fosse avvenuta prima della pandemia, appena nel 2019, e avessimo discusso di un’immissione di titoli di debito europei per finanziare gli Stati membri non in base al loro Pil ma in base alle rispettive fragilità economiche, e se avessimo aggiunto che in caso di crisi energetica avremmo deciso un’iniziativa centralizzata come RePowerEu destinando ulteriori risorse, ci avrebbero letteralmente preso per pazzi, per europeisti malati».

Invece tutto ciò si è drammaticamente verificato…

«Chi avrebbe potuto preveder una pandemia della portata del Covid-19 o ancora una guerra in pieno Vecchio continente? Le sollecitazioni esterne sono state drammatiche evidentemente, così come puntuali le risposte attivate dalle istituzioni politico-economiche europee. E questa rappresenta, ovviamente, una ragione di ottimismo. Se l’Europa manterrà una compattezza adeguata davvero potrà gettare le basi per una trasformazione».

Vale ancora il vecchio adagio per il quale proprio dalle crisi l’Europa esce migliorata?

«Jean Monnet aveva una lunga visione in termini di Europa. E questa ottimistica prospettiva vale anche per l’Italia che è arrivata veramente a un punto di svolta: ci sono dati chiari che ci evidenziano come senza forti innovazioni istituzionali, sociali ed economiche noi non saremmo riusciti a stare al passo di una evoluzione europea come quella che si sta verificando. Ormai siamo molto consapevoli dei nostri problemi: non ci rimane altro che affrontarli. E possibilmente risolverli».

Marcello Messori, biellese, classe 1950, è ordinario di Economia al Dipartimento di Scienze Politiche e direttore della Luiss School of European Political Economy, dopo aver insegnato dalla metà degli anni Novanta al 2012 presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Formatosi anche al MIT di Boston e a Stanford, ha pubblicato più di centocinquanta lavori in italiano, inglese, francese e tedesco, e nell’arco di trent’anni i suoi prevalenti campi di ricerca hanno riguardato la teoria monetaria e creditizia, la macroeconomia, la storia dell’analisi economica e il sistema economico italiano e la governance economica dell’Unione europea. Il comitato scientifico del Centro europeo ricerche, la Società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione e l’Associazione italiana del risparmio gestito lo hanno visto in ruoli dirigenziali, mentre e tra il maggio del 2014 e il novembre del 2015 è stato presidente di Ferrovie dello Stato.

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Egidio Lorito