Il declino che si vuole ignorare
L'editoriale del direttore
Quando nei primi anni Ottanta lavorai a Bergamo, l’industria del bianco era tra le più importanti della provincia. Dalle fabbriche di Candy, Philco e Zerowatt uscivano lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e congelatori, produzioni che davano lavoro a centinaia di persone. A distanza di tempo, di quelle realtà non esiste più nulla se non, talvolta, i marchi. E però ricordo che più di quarant’anni fa i segni di quel che sarebbe accaduto già si potevano intravedere: l’industria degli elettrodomestici nazionale cominciava a essere aggredita da quelle dei Paesi dell’Est e dai concorrenti asiatici. Dal che si poteva intuire che senza innovazione, ma soprattutto senza una sensibile riduzione dei costi, tra cui quello del lavoro, le realtà che avevano accompagnato il boom economico degli anni Sessanta e trasformato la vita di milioni di famiglie, entrando nelle cucine e nei bagni degli italiani, sarebbero state spazzate via. Come in effetti poi fu.
Se si ripercorre la storia del settore, magari sfogliando la pubblicità presente nei vecchi numeri di Panorama, troviamo un cimitero di nomi ben noti. Oltre ai succitati, ci sono Zanussi, Ignis, Indesit, Zoppas, Castor: tutti o quasi spariti. Al massimo resta vivo qualche brand, ma le aziende sono da tempo passate di mano, dai fondatori agli investitori, e non di rado le produzioni sono state trasferite all’estero. L’ultimo esempio in ordine di tempo riguarda Beko, gruppo turco proprietario di vari marchi, tra cui Indesit e Ignis, che nelle scorse settimane ha annunciato la chiusura di alcune fabbriche e il licenziamento di duemila dipendenti.
Perché mi interessa il declino della cosiddetta industria del bianco? Perché secondo me rappresenta meglio di tante chiacchiere il rischio che stanno correndo le grandi imprese europee, da quella dell’automobile a quella chimica, dalla manifattura alle macchine utensili. Ne parliamo a pagina 14 con un’inchiesta di Guido Fontanelli, il quale oltre a ripercorrere le tante crisi aziendali che si scaricano sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico, racconta un processo che non sembra lasciare molti spazi di manovra alle industrie della vecchia Europa, strette come sono fra i costi di un welfare sempre meno sostenibile e i prezzi dell’energia superiori a quelli dei Paesi concorrenti. Senza contare i vincoli imposti da una transizione ambientale e le migliaia di regole burocratiche inventate dai funzionari di Bruxelles.
Piano piano, le fabbriche del continente perdono terreno e per salvarsi in molte emigrano, trasferendo armi e bagagli all’estero: a volte negli Stati Uniti, altre in Paesi fiscalmente o produttivamente più convenienti. Un fenomeno che dal mio punto di vista è cominciato tanti anni fa e che ora, se non si cambieranno le regole del gioco nella Ue, rischia di concludersi in maniera disastrosa per milioni di lavoratori.
A differenza di chi nel 2001 era in piazza per protestare contro la globalizzazione, convinto che l’apertura dei mercati avrebbe impoverito ancora di più le nazioni deboli, già all’epoca ero certo che sarebbe avvenuto il contrario. La battaglia contro il neoliberismo e le multinazionali è stata inutile, perché la globalizzazione non ha reso poveri i Paesi emergenti, ma li ha rafforzati, producendo l’effetto opposto in Europa. Il Pil dei Brics, ma non soltanto di Cina, Brasile e India, cresce, mentre quello nella Ue diminuisce. Se una volta con una celebre definizione si descriveva il Vecchio continente definendolo un gigante economico, un nano politico e un verme militare, oggi la prima convinzione va rivista al ribasso, perché l’Europa non è più quel colosso che credevamo.
Scatti di Industria: 160 anni di Ansaldo in mostra
Scatti di Industria: 160 anni di Ansaldo in mostraIl 2025 si presenta con una guerra alle porte che non promette nulla di buono, ma soprattutto con un’America che punta a rafforzarsi, imponendo dazi e misure per incentivare l’industria interna. E noi? A Bruxelles, popolari, socialisti e verdi continuano a litigare, senza rendersi conto che la questione a cui prestare attenzione non sono le poltrone e le deleghe dei commissari, ma il pericolo di una desertificazione industriale. Un rischio che non è lontano, ma dietro l’angolo.