I paesi che trattano meglio le donne
Bene i paesi nordici, male l'Italia insieme a Stati Uniti, Repubblica Ceca, Giappone, Corea del Sud e Turchia
Il tasso di occupazione femminile è da sempre considerato un indicatore importante del livello di sviluppo di una società. I fattori più importanti che evidenziano il successo di una nazione dal punto di vista della parità di genere sono due: livello dei salari (che dovrebbe essere identico a quello degli uomini) e sostegno alla maternità, ai fini di permettere un rapido reinserimento nel contesto di lavoro dopo il periodo di congedo.
Statista ha ripreso in un grafico la performance di 29 su 34 paesi Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) prendendo in considerazione sei variabili: livello di istruzione, partecipazione alla forza lavoro, salario, costo degli asili, pacchetto maternità, numero di donne con incarichi dirigenziali. Da notare che per la prima volta questa ricerca include nel pacchetto maternità la durata dei congedi remunerati per i papà, nella convinzione che questo tipo di misura possa aiutare le mamme a barcamenarsi meglio tra famiglia e carriera.
Non sorprende trovare nelle prime posizioni di questa classifica i paesi nordici: Islanda, Norvegia e Svezia sono nella top three, seguiti dalla Finlandia. La Danimarca è in ottava posizione.
Più insolito vedere Ungheria e Polonia in quinta e sesta posizione. Anche Francia, Nuova Zelanda e Belgio rientrano nella top ten. I paesi peggiori per le donne sono invece Giappone, Turchia e Corea del Sud, ma anche Svizzera, Irlanda, Gran Bretagna, Grecia e Olanda non offrono prospettive molto migliori.
Purtroppo anche l'Italia si posiziona al di sotto della media Ocse, come Stati Uniti e Repubblica Ceca, rivelandosi peggiore di altre realtà europee come Portogallo, Spagna, Austria e Germania.
L'Italia è penalizzata soprattutto dal livello di istruzione delle donne (che è decisamente più basso di quello degli uomini: solo il 4 per cento della forza lavoro femminile ha conseguito un diploma), da un tasso di partecipazione al mondo del lavoro che è inferiore a quello maschile del 20 per cento circa, e dai congedi per i papà, di fatto inesistenti.