Elsa Fornero: 'Rassegnatevi, non sarete più proprietari del vostro lavoro'
Il Ministro del lavoro ai giovani: "non siate schizzinosi..." ed è polemica
UPDATE: Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, oggi è stata duramente contestata con cori "Fuori, fuori! Lavoro, lavoro!" da alcuni esponenti dei Cobas e di Rifondazione Comunista in un circolo sociale a Nichelino, vicino Torino, dove doveva tenersi un dibattito sulle pensioni. Questa mattina, infatti, a margine di un convegno all'Assolombarda, si è lasciata andare a più di un'affermazione forte. Ha detto che il Governo ha stanziato più di 230 milioni da ora a fine marzo per sostenere l'occupazione debole soprattutto quella dei giovani che non devono essere "troppo choosey (difficili, pignoli, ndr), all'inglese, e prendere le prime offerte e poi da dentro guardarsi intorno perché non si può piu' aspettare il posto ideale''. Anche se, ha poi aggiunto, che "una volta era così, oggi in effetti non ci sono le condizioni per essere "schizzinosi". Per poi stupire: "Se la Cgil mi invita, in Piazza ci vengo anch'io", riferendosi alla manifestazione annunciata dalla Cgil per il prossimo 14 novembre.
E ancora: "Il ddl stabilità deve mantenere il Fondo per l'occupazione e ristabilire il Fondo per le politiche sociali pur nel mantenimento dei saldi", e "il ministro passa, la riforma resterà per un po', sempre che non la cambino subito, perché gli obiettivi sono buoni". Non ha fatto altro che ribadire quanto affermato con forza nell'intervista rilasciata a Panorama (numero 44 in edicola) in cui il Ministro parla a tutto tondo del lavoro, della sua riforma, degli esodati e, oltre ad annunciare la creazione di un'assicurazione sociale per l'impiego che entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio, afferma: "Ho ragione io. E un giorno mi ringrazierete". Leggete qui.
----------------------
Ministro, ha visto il voto finale del sondaggio? L’hanno bocciata: vuole commentare?
Elsa Fornero non si scompone: «Questa è una deduzione di Panorama» dice con tono pacato. «Il vostro non è un campione rappresentativo perché si basa su aziende prevalentemente del Nord (vedere i grafici a destra, ndr). E poi avete preso in considerazione solo un aspetto della riforma del mercato del lavoro. Che è invece costruita su più pilastri».
Sulla possibilità che possa produrre risultati c’è scetticismo anche in altre parti d’Italia, com’è emerso dai resoconti di altri giornali.
Non è una riforma per pezzi separati, ma considera l’intero ciclo lavorativo di una persona. Inoltre occorre considerare che non è una riforma per combattere la recessione, obiettivo per il quale servono altre politiche, ma per riagganciare saldamente la ripresa non appena si presenterà. Quindi, per giudicarla, è bene considerarla nel suo insieme, collocandola nella sua giusta prospettiva, perché non può dare risultati nell’immediato. Questa è una prima premessa assolutamente necessaria. Ma è doverosa una seconda premessa. Nel sondaggio si prende in considerazione solo la flessibilità in entrata e non anche quella in uscita. Noi invece abbiamo agito attuando un doppio intervento correttivo, su entrambi gli aspetti del mercato del lavoro.
In entrata?
Non abbiamo ridotto la flessibilità, però ne abbiamo contrastato l’uso improprio. Prenda il caso di una commessa assunta con partita iva, ma che viene impiegata con orari da dipendente e meccanismi che ne limitano ogni autonomia. Questo non va bene. Anche perché quella commessa, essendo di fatto subordinata, e non lavoratrice autonoma, finisce per accettare qualsiasi cosa pur di avere un’occupazione. Noi invece diciamo: se si vuole una collaborazione autonoma, deve essere tale e non mascherare un rapporto subordinato; così come, se si assume un collaboratore per un progetto, dev’esservi davvero un progetto.
Forse è un principio troppo rigido, dal punto di vista delle aziende.
Le imprese hanno mille buone ragioni per volere flessibilità: dalle collaborazioni in partita iva ai progetti, dal tempo determinato al part time. La legge non cancella questi contratti, semmai li valorizza. Ma il governo non può assumere solo il punto di vista delle aziende, deve tenere conto anche di quello dei lavoratori e quello più generale di tutto il Paese, e non soltanto nel breve periodo. Quindi non soltanto non abbiamo abolito i contratti a tempo determinato, ma abbiamo abolito la «causale» per il primo contratto a tempo. Cioè diciamo alle imprese: avete la necessità di assumere fino a un anno? Bene, ne avete la possibilità senza alcun obbligo burocratico.
Dal punto di vista del lavoratore, invece?
Prendiamo i giovani, che sono le prime vittime di questa precarietà. Un giovane viene assunto una prima volta a tempo determinato, poi una seconda, poi una terza. Ma dopo che cosa trova sul mercato questo lavoratore? È molto più a rischio di disoccupazione di persone assunte a tempo indeterminato. Questo è un rischio che la società deve riconoscere. Perciò noi diciamo: le imprese che fanno un grande uso di questi contratti finiscono per imporre un costo alla società sotto forma di oneri per usare gli ammortizzatori sociali e le politiche attive che necessariamente debbono accompagnare le persone disoccupate (e che la riforma ha ampiamente modificato). Ecco, allora, il nostro ragionamento: facilitare la flessibilità per le imprese, ma al tempo stesso rendere le imprese partecipi dei maggiori oneri che la società deve sostenere con la diffusione delle tipologie contrattuali più flessibili. Una successione di contratti «mordi e fuggi» peraltro, oltre a danneggiare il lavoratore, non fa bene neppure all’impresa. Il lavoratore non riesce ad arricchire il suo capitale umano e l’impresa non trova conveniente investire sul lavoratore, creando i presupposti per una migliore relazione di lavoro, impedisce al datore di lavoro di investire su una relazione di lavoro più produttiva (anche perché un po’ più stabile). Quindi il messaggio della riforma, che non è smentito dai risultati del vostro sondaggio, anzi, è: non ridurre la flessibilità, ma contrastare il precariato.
C’è chi dice che non esiste, il precariato.
Sì, lo so. E invece esiste. Ed è un danno per i giovani, ma anche per le imprese. Il nostro obiettivo è rendere un po’ più stabili le relazioni all’ingresso, per garantire il lavoratore, ma anche per aumentare la produttività, a vantaggio delle imprese.
Con la legge si ritorna all’apprendistato: troppo oneroso, sostengono le aziende.
Non è vero che costa di più, costa di meno. Abbiamo scelto l’apprendistato come forma tipica d’ingresso al lavoro, e questo viene riconosciuto e valorizzato dalle risposte del vostro sondaggio. Ma perché funzioni occorre ridurre la distanza fra scuola e mondo del lavoro, che è tanta, troppa. Quindi occorre ridurre la distanza tra formazione scolastica e impresa, e tra impresa e formazione. Nel nostro ordinamento scolastico sono privilegiate le scuole di cultura generale. Dobbiamo tornare a investire anche su quelle tecnico-professionali, che in tutti questi anni sono state purtroppo svilite. La scuola deve aiutare un giovane a trovare lavoro, anche insegnandogli un mestiere. Le imprese tuttavia, anche nel loro interesse, devono capire che ci si forma studiando periodicamente, anche dopo la scuola.
Però, come emerge dal sondaggio, l’altra preoccupazione delle imprese è che l’apprendistato, ponendo dei vincoli, finisca per ridurre la flessibilità.
Ma io vorrei incontrare tutti questi direttori del personale che avete intervistato nel sondaggio, non credo di essere presuntuosa se dico che sono convinta che riuscirei a convincerne una buona percentuale. D’altronde, proprio la Germania ci insegna che l’apprendistato che combina scuola e lavoro è un potente mezzo per ridurre la disoccupazione giovanile e per aumentare la produttività e lavoratori motivati. Questo è davvero un punto centrale su cui sono pronta a confrontarmi con chiunque. Anzi, faccio una richiesta ufficiale a Panorama: fatemi incontrare questi direttori così che possa ascoltarne le ragioni e i punti di vista specifici, riuscendo magari, a mia volta, a convincerne un buon numero.
Lei ha spiegato finora come cambierà il mercato del lavoro in entrata. E in uscita?
Ci sarà meno protezione. Perché vogliamo un mercato del lavoro più inclusivo, che porti dentro i giovani precari. Ma anche più dinamico. Che significa? Significa che una volta che hai un posto, non puoi considerarlo tua proprietà, e per di più a vita. Un posto di lavoro dev’essere economicamente valido, cioè supportare creazione di valore aggiunto. Per questo abbiamo riformato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non certo per penalizzare i lavoratori o avvantaggiare le imprese, ma per avere più occupazione in un mercato dinamico dove alla maggiore probabilità di uscita si accompagna una maggiore probabilità di entrata. Con la nostra modifica si riduce l’area della reintegrazione in caso di licenziamento. Perché ci possono essere serie ragioni economiche e disciplinari per licenziare un lavoratore. Il giudice può dichiarare illegittimo il provvedimento dell’azienda, ma non può ordinare il reintegro automatico, mentre può riconoscere un indennizzo fino a un certo ammontare. Così si va incontro alle esigenze delle imprese di fronte all’incertezza dei processi lunghi con reintegri e aziende condannate a pagare tutti gli arretrati. Insomma, abbiamo ridotto il rischio per l’impresa e l’incentivo al ricorso al giudice per il lavoratore. Se l’impresa non bara (e in quel caso il giudice può intervenire) e il lavoratore capisce le ragioni oggettive del licenziamento, potrebbe anche accordarsi con il datore di lavoro usando un altro strumento della riforma, la conciliazione preventiva, che può anche comportare un aiuto nella ricerca di una nuova occupazione (l’outplacement). Si aiuta così il lavoratore licenziato a trovare un altro posto, senza che sia lo Stato a mantenere in vita occupazioni non più produttive.
Il lavoratore deve accettare la propria parte di rischio, certo, ma c’è la garanzia che nessuno bari?
Guardi, in tutta franchezza, se gli onesti sono pochi, non c’è riforma che tenga. Non abbiamo riformato l’articolo 18 partendo dal presupposto che i giudici siano pregiudizialmente favorevoli al lavoratore, come lamentano alcuni imprenditori. Sono ingiustificati i loro timori: in Italia ci sono ottimi giudici che non ragionano per partito preso, ma valutano nel merito. E valuteranno se c’è o meno una manifesta inconsistenza del motivo economico del licenziamento. E, in caso di discriminazione politica, etnica, religiosa o sessuale, la nostra riforma ribadisce che il licenziamento è nullo: è come se non fosse mai avvenuto.
Lei parlava prima della necessità di rendere dinamico il mercato del lavoro.
Sì, dicevo che non può esistere una concezione proprietaria del posto di lavoro. Però, al tempo stesso, dobbiamo fare in modo che vengano ridotti i tempi di transizione fra scuola e lavoro, e tra disoccupazione e lavoro. Questo è il mercato dinamico. Ma qui occorre un cambiamento di regole e di mentalità. Abbiamo previsto un sistema di ammortizzatori adeguati. Non può più accadere, come in passato, che un lavoratore rimasto senza posto sia pagato per anni, senza chiedergli nulla in cambio e magari incoraggiandolo pure a lavorare in nero. Allora abbiamo pensato: invece dell’assistenza a carico della collettività, non è meglio mettere dei soldi per un’altra occupazione in un posto più produttivo? Ecco, dal prossimo 1 gennaio si cambia con l’introduzione di un’assicurazione sociale per l’impiego.
Che cosa vuole dire?
È un sussidio di disoccupazione per un anno se hai meno di 50 anni, un anno e mezzo se ne hai di più. Ma è condizionato. Non puoi restartene inerte. Se qualcuno ti offre un posto di lavoro e tu lo rifiuti, perdi il sussidio.
Ministro, basta tutto questo per rendere più dinamico il mercato?
No, naturalmente. Ci si deve attrezzare per fare cose che finora non sono mai state fatte: politiche attive e servizi per il lavoro. Perché il lavoro non piove dal cielo. Irrealizzabile? Non lo so, ma la scommessa l’abbiamo fatta. E poi serve anche un’attività di monitoraggio, perché le riforme non nascono perfette. Da un mese stiamo lavorando per lanciare un metodo per conoscere dati e metterli a disposizione di tutti. Ma che sia un metodo scientifico, per cambiare le cose che non vanno. Perché sento giudizi estemporanei di forze politiche che a volte fanno cascare le braccia. Alla politica, sui temi del lavoro e delle pensioni, chiederei più senso di responsabilità.
I suoi rapporti con la Cgil e la Fiom, che la vedono come fumo negli occhi?
Da parte mia sono corretti. Da parte della Cgil vedo molti pregiudizi. Quanto alla Fiom, ho conosciuto il suo segretario, Maurizio Landini. È preparato, siamo su posizioni diverse, ma c’è rispetto da parte mia. Lo so bene che dietro la Fiom ci sono storie pesanti e spesso drammatiche. Ma non possiamo fare le riforme pensando solo a quelle storie: dobbiamo pensare al Paese.
E con il Pd? Sono migliorati i suoi rapporti o le brucia ancora il mancato invito alla festa nazionale del partito?
Vuole sapere se mi ha fatto soffrire... Sì, ci sono rimasta molto male, mi ha fatto soffrire quell’esclusione di cui non ho mai capito la ragione. Non mi sono mai sottratta al dialogo e alle spiegazioni.
In Parlamento sono in atto tentativi di escludere alcune categorie dalla nuova normativa della riforma pensionistica. Ministro, come intende reagire?
Considero la riforma delle pensioni la più vasta operazione di riequilibrio tra generazioni realizzata in Italia negli ultimi 20 anni. E avendo questa valenza è indispensabile che riguardi tutta la popolazione. Ho già avuto modo di dire, e non posso che ribadirlo, che ogni tentativo di distinguere, di individuare figli maggiori e figli minori troverà, come è accaduto di recente, l’opposizione del governo e la mia personale.
Un’ultima domanda: non dev’essere facile fare il ministro del Lavoro, col senno di poi c’è qualcosa che non avrebbe fatto?
Col senno di poi, sì. Non mi sarei dovuta fidare dei primi numeri che avevo avuto sugli «esodati» (termine che personalmente ho sempre cercato di evitare, anche perché altri li hanno creati, mentre noi dobbiamo salvaguardarli). Sì, avrei dovuto ponderare molto di più i numeri che mi sono stati dati all’inizio. Ma credo di meritare almeno un’attenuante: l’urgenza di agire, perché non c’era proprio tempo da perdere.